Noi ti continueremo a ricordare, Sergio, e lotteremo perché il tuo esempio non venga mai dimenticato. Ogni qual volta una via, una piazza o un parco della nostra patria a te viene intitolato, puoi sorridere, in quanto significa che abbiamo compiuto un ulteriore passo verso la vittoria e verso la definitiva affermazione della tua memoria. Nel tuo onore è il nostro impegno, A te in questa giornata sono rivolti i nostri pensieri e le nostre preghiere.

Il 29 aprile 1975 moriva Sergio Ramelli, dopo 47 giorni di coma, in seguito ad un vile e barbaro attacco di militanti di estrema sinistra. Quel giorno la città di Milano veniva macchiata del sangue di un giovane coraggioso, di un martire di una nobile idea immortale, che, stando proprio all’etimo della parola martire, Sergio, insieme a tanti altri giovani dell’epoca, decise di testimoniare, perdendo la vita. Quel nefasto 13 marzo, giorno dell’attentato, una madre vide un figlio sprangato, per il fatto che secondo buona parte della sinistra di allora, extraparlamentare e non, uccidere un “fascista” non era reato. Intellettuali borghesi e dabbene, i quali al riparo da ogni problema o complicazione, diffondevano il verbo comunista e istigavano all’odio politico, non sono in effetti meno responsabili di chi materialmente uccise Sergio. L’inizio di quella tragedia risale a molto tempo prima. La sua sorte fu segnata da un evento ben preciso, che è bene ricordare, per comprendere appieno di quali nefandezze taluni furono capaci e come, ancora oggi, nonostante il tempo passato, certa bieca propaganda non conosca alcun limite etico.

Sergio per molti aspetti era un ragazzo come tanti, frequentava l’istituto tecnico Molinari di Milano ed era appassionato di chimica. Aveva tuttavia una particolarità, che è ovviamente di pochi uomini per natura, e che è in effetti propria di quegli uomini che fanno la storia e costituiscono in aeternum un exemplum per i posteri: provare onore per quello che la massa all’epoca tacciava come simbolo del male, per paura dell’oppressione o per conformismo. Tale senso dell’onore che Sergio portava fieramente nel proprio petto lo condusse ad iscriversi al Fronte della Gioventù. Accanto alla militanza politica portava avanti e con profitto il proprio percorso di studi. Un giorno arrivò il momento del compito in classe di italiano e Sergio scelse di trattare un tema importante e ostico per il sistema di allora, ovvero l’attentato subito da alcuni esponenti del Movimento Sociale italiano da parte delle brigate rosse. In quel tema venne denunciato il silenzio delle istituzioni sull’avvenimento. Lì ebbe inizio l’incubo. Il tema finì nelle mani di alcuni studenti di estrema sinistra che lo affissero pubblicamente nella scuola, con l’etichetta del “tema di un fascista”. Sergio veniva trascinato per i corridoi di scuola, con un cartello appeso al collo con la scritta di quella parola e si ritrovò a subire costanti umiliazioni e vessazioni nell’ indifferenza generale. Tale clima si protrasse per mesi fino al tragico momento in cui una chiave inglese, oggetto con cui il marcio della sovversione si identificava, gli tolse la vita. I suoi boia erano studenti di medicina, esponenti di avanguardia operaia. Bene chiarire ciò, visto che evidentemente la depravazione della loro ideologia e ancor di più dei maestri da cui venne loro trasmessa fu capace di rendere biechi criminali, i quali mai sconteranno appieno la pena meritata, ragazzi che studiavano teoricamente per salvare la vita umana. E, dopo la sua morte, non si fermarono, continuando a minacciare i suoi familiari, e addirittura chi decise di partecipare al suo funerale. Nel consiglio comunale di Milano, una parte dei consiglieri eletti di sinistra, dopo aver appreso della sua scomparsa, applaudì festante, rivelando ancora una volta la propria natura, ovvero quella dello sciacallo che festeggia la morte del leone.

A distanza di tanti anni, è doveroso richiamare alla memoria la vicenda di Sergio e quella di tanti altri cui toccò analogo destino. È certamente vero che il fato dei coraggiosi è morire per mano dei vigliacchi, ed è per tale ragione che chi oggi, in virtù dei sacrifici di chi ci precedette, può fare politica da questa parte della barricata, senza incappare nei rischi di allora, non deve mai rinunciare a combattere e a non retrocedere di un millimetro, rammentando a se stesso questo motto: “non si fanno passi indietro”. Se è vero infatti che non esistono più quelli che utilizzano la chiave inglese, è anche vero che i loro eredi dileggiano la memoria di Sergio, provando ad imporre a noi di sottometterci a quelle nefande parole a causa delle quali fu ucciso. La pacificazione è un bellissimo principio, ma non è possibile attuarla con chi contesta un sottosegretario che si reca alla scuola di Sergio per commemorarlo, come è accaduto lo scorso 13 marzo a Paola Frassinetti, con giornalisti indegni come Barbacetto , il quale in un articolo di un po’ di tempo fa del F.Q, giustificava i suoi carnefici, e con chi, pur formalmente unendosi al ricordo, legittima ciò che di intollerabile constatiamo.

L’auspicio è che non vi sia più alcuno che provi ad oltraggiarlo e in questo senso ci sono state importanti evoluzioni. Ma nessuno è disposto a mistificare ciò che accadde e ad omettere a causa di quali “idee” Sergio oggi non è qui. Così come mai si accetterà che a lui si debba solo la pietà umana e non il rispetto dei valori che portava avanti, in quanto sono questi che lo resero straordinario e che gli diedero la forza di non piegarsi. E sono questi i valori con i quali lui continua a guidarci da lassù, vivendo in noi.

A Sergio Ramelli, figlio d’Italia