Alle 9 e 58 del 16 marzo 1978 il TG1 lancia un’edizione straordinaria. Bruno Vespa, allora conduttore del telegiornale di Rai1, dà agli italiani una notizia che cambierà per sempre la storia della Repubblica: Aldo Moro è stato rapito. È successo alle 9 in punto, all’angolo tra via Fani e via Stresa, quartiere Trionfale, Roma nord. Moro e la sua scorta si stanno dirigendo alla Chiesa di Santa Chiara, luogo di preghiera abituale del Presidente della DC, quando una macchina improvvisamente sbarra la strada. È questione di secondi. Persone travestite da aviatori Alitalia escono dall’ombra dei cespugli e sparano. I colpi scoppiati uccidono i cinque componenti della scorta, Moro viene sequestrato.
Gli esecutori del agguato sono i componenti dell’organizzazione terroristica di estrema sinistra che dal 1970 è impegnata nella lotta armata per il comunismo: le Brigate Rosse.

Il movente è la votazione che doveva accadere proprio quella mattina del ’78 a Montecitorio: la fiducia al nuovo governo democristiano Andreotti IV che per la prima volta avrebbe goduto dell’appoggio esterno del Pci di Berlinguer. Anche se a primo impatto può sembrare una contraddizione, la realtà è che la scelta del segretario del Partito comunista italiano di avvicinarsi alla Democrazia Cristiana non era condivisa dalla parte “più a sinistra” e dagli estremisti comunisti, fermamente contrari al cosiddetto compromesso storico. Saranno le Brigate Rosse a tenerlo prigioniero nella “prigione del popolo” in un appartamento di via Montalcini, sopra alla Magliana, per 55 giorni in cui il Caso Moro resterà sulle prime pagine dei giornali. Giorni in cui la politica e l’opinione pubblica sono spaccate in due, perché le BR comandate da Mario Moretti vogliono negoziare e chiedono la liberazione di alcuni militanti, ma non tutti alla Camera e al Senato sono d’accordo. Sorprendentemente sono proprio i democristiani insieme ai comunisti del Pci a dichiarare una ferma politica di non-negoziazione, contrastati dai socialisti di Bettino Craxi e dal Papa Paolo VI che insistono fino alla fine per salvarlo. Tutti i dibattiti diventeranno inutili il 9 maggio 1978, quando a mezzogiorno una telefonata raggiunge il professore di diritto e procedura penale della Sapienza, nonché allievo di Moro, Franco Tritto. Dall’altra parte della cornetta c’è il “dottor Nikolai” che tra le lacrime del professore annuncia le ultime volontà del prigioniero e riferisce l’ubicazione del corpo di Moro che verrà ritrovato senza vita in una Renault 4 rossa parcheggiata in centro a Roma, in via Caetani.


Nel ricordo di Aldo Moro, tralasciando tutto ciò che di quel caso rimane ancora fumoso e incompleto e accantonando complottismi, non va trascurata la memoria dell’uomo che ha scritto la storia del nostro paese, dello statista che ha fatto della politica e della mediazione una missione di vita, del professore universitario della nostra Sapienza che portava con sé le tesi dei suoi studenti laureandi anche in quella ingiusta mattina, in una borsa sottratta dai brigatisti nel corso del rapimento. La memoria dell’essere umano che era Aldo Moro è stata tramandata fino ad oggi tramite le 86 lettere scritte durante la prigionia indirizzate agli amici democristiani, con le quali chiede di trattare con le BR per la sua liberazione. In seguito alla presa di coscienza della sua imminente fine Moro scrive l’ultima commovente lettera indirizzata alla moglie Eleonora. Quelle che si leggono sono le parole di un uomo davanti alla sua condanna, di una persona che è cosciente di andare incontro alla morte e che comunque sono piene di dolcezza e di amore (non tralasciando di condannare la spietata strategia della non-negoziazione portata avanti dai politici italiani considerati amici) davanti alle quali è difficile rimanere impassibili, ne riporto qui una parte: “Mia dolcissima Noretta, dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. […] Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l’indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. […] È poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall’idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati delle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. […] Per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi […] Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. […] Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienimi stretto.”


A 45 anni di distanza il ricordo del rapimento Moro deve essere un momento di riflessione sul significato di fare politica e di ferma condanna alla violenza politica che ha caratterizzato gli anni Settanta in Italia, che non deve in nessun modo ripetersi. Gli anni di Piombo sono stati macchiati dal sangue di chi viveva la politica nei palazzi e nelle strade e sono da considerare una pagina nera nella storia del nostro paese. Qualsiasi orgoglio o commemorazione di quel periodo e dei suoi protagonisti, soprattutto quelle perpetrate all’interno delle università, sono anacronistiche e aberranti e infangano il ricordo di chi per colpa del terrorismo politico ha perso la vita. Per tutti questi motivi, contro odio e faziosità, schieriamo dialogo e confronto, per una Rinascita umana e culturale, seguendo l’esempio di chi è morto inseguendo un ideale.

Alessio Cara