Un’interpretazione letteralistica del combinato disposto degli articoli 54 (dovere di fedeltà) e 91 (giuramento) della Costituzione, potrebbero portare qualora si effettui una lettura eccessivamente estensiva a ritenere che qualsiasi scorrettezza posta in essere dal Presidente della Repubblica comporti un tradimento del giuramento prestato e dunque e dunque più precisamente vista l’importante carica ricoperta e le funzioni svolte un alto tradimento. Ciò sarebbe ovviamente eccessivo di fronte agli innumerevoli errori nei quali può incorrere la maggior parte di volte in buona fede il Capo di Stato, e soprattutto del tutto slegato dalla peculiare natura e necessariamente anticostituzionale dei reati in questione. Essi infatti sussistono secondo una tesi restrittiva avallata in dottrina soltanto in presenza di manifesti comportamenti anticostituzionali e caratterizzati dal dolo. Ciò non toglie che i seguenti siano comunque due reati singolari la cui definizione è molto controversa in dottrina, è ben nota infatti la difficoltà ad individuare precisamente tali reati figure del crimine molto generiche e poco descrittive anche se non atipiche, tali comunque da non poter essere ricondotte in maniera semplicistica a reati previsti nei codici in quanto reati propri del Presidente della Repubblica (anche se eventualmente potrebbero anche essere posti in essere con ausilio di altri.) Ad esempio l’articolo 283 C.p non sembra essere idoneo a qualificare l’attentato alla Costituzione di cui all’articolo 90 della Costituzione, tale articolo infatti tanto per dirne una non ha lo stesso nome dell’articolo 90 della Costituzione si parla infatti di Attentato “contro” la Costituzione e non “alla” Costituzione. L’articolo 283 punisce inoltre soltanto comportamenti attivi però se è vero che non impedire un evento che si ha obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo (articolo 40 C.p) e dato che il Presidente della Repubblica potrebbe attentare alla Costituzione anche con un comportamento omissivo anche se necessariamente doloso ecco che abbiamo un altro elemento di sfavore nei confronti dell’idoneità dell’articolo 283 C.p.

Infine l’articolo 283 C.p prevede un fatto diretto cioè Mutare la costituzione dello stato l’articolo 90 sembra piuttosto configurare l’attentato alla costituzione in senso diverso cioè come turbamento profondo dell’ordine costituzionale, in effetti l’articolo 90 non protegge solo la costituzione ma bensì l’intero assetto politico- istituzionale – giuridico da essa previsto cioè tutti quegli organi di vertice con le loro competenze da essa previsti, nonché l’assetto normativo istituzionale e il suo equilibrato svolgimento. Si pensi ad esempio all’usurpazione di competenze proprie di altri organi costituzionali da parte del Presidente, o l’esercizio delle sue competenze in modo da ostacolare l’attività funzionale di altri poteri, dunque l’articolo 283 non esaurisce tutti i comportamenti in presenza dei quali si deve parlare di attentato alla Costituzione, rientrando tra quest’ultimi non soltanto tutti quei comportamenti diretti volti a mutare la Costituzione dello Stato o la Forma di Governo ma anche tutti quegli atti (a volte anche omissivi) volti ad ostacolarne o condizionarne il corretto funzionamento.

 

Spesso eventi come l’usurpazione sopra menzionata possono configurare un conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte, tuttavia in alcuni casi gravi questi possono condurre il Presidente dinanzi alla Corte in stato d’accusa. Va detto però che lo strumento più utilizzato al fine di ristabilire il corretto equilibrio tra gli organi di vertice è quello più soft più sicuro e maggiormente ordinario del conflitto di attribuzione ulteriore elemento che rende ancor più remote le figure dei reati presidenziali in senso stretto, la regola è il conflitto di attribuzione l’eccezione è la messa in stato d’accusa, quest’ultimo deve essere piuttosto visto come una situazione alla quale non vi è rimedio. Ulteriore problema dell’articolo 283 C.p è sempre apparso fino alla sua riforma un articolo sul quale gravavano pesanti dubbi di legittimità costituzionale, infatti esso nella sua originale formulazione prevedeva “Chiunque commetta un fatto diretto a mutare la costituzione dello Stato o la forma del Governo con mezzi non consentiti dall’ordinamento costituzionale è punito con la reclusione non inferiore a 12 anni.” Innanzitutto si noti come Stato e Governo erano scritti in maiuscolo a differenza di costituzione che era scritto in minuscolo, ciò in quanto la precedente formulazione del 1947 riprendeva la vecchia dizione della norma risalente al 1930. Parlando di costituzione dello stato, o la forma di governo, lasciando dunque intendere come faceva l’identica disposizione del 1930, per costituzione dello stato la forma di Stato, ciò avvalora il perché della parola costituzione in minuscolo, ma se così stanno le cose è bene ricordare che non esistono oggi metodi o mezzi idonei per modificare la forma di Stato.

Anche in relazione al reato di alto tradimento il tradizionale riferimento era quello fatto verso l’articolo 77 del C.p.m.p il perché risiedeva nella identificazione terminologica del nome del crimine o del reato, tuttavia anche in tal caso anche questo non pare affatto adeguato riguardando esso solo i militari e soprattutto una troppo complessa serie di reati contro la personalità interna ed internazionale dello Stato.  Inoltre altro problema relativo a questo risiede nel fatto che tale articolo si riferisce al reato di alto tradimento soltanto nella sua intitolazione, mentre nella parte normativa vera e propria si limita a comminare pene più severe per alcuni reati come ad esempio i reati contro la personalità interna o internazionale dello stato qualora siano commessi da militari vi è dunque un rinvio che non è per tutti i reati, ma solo per alcune disposizione del C.p. 

Pertanto si crea con riguardo tali reati un problema di non poco conto in quanto se da un lato occorre salvaguardare il principio di legalità e dunque nessuno può essere punito in virtù di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, dall’altro però appare difficile il ricorso alle preesistenti figure di crimine che non sono state affatto concepite per tale soggetto che riveste l’incarico di Presidente della Repubblica, il quale giustamente è un organo peculiare inserito in un contesto unico. Inoltre qualora si accogliesse la tesi prevalente del carattere fortemente anticostituzionale di tali reati allora le due figure penali apparirebbero inscindibili nel senso che non si riesce ad immaginare un alto tradimento che non comporti anche in automatico un attentato alla costituzione e viceversa. Un esempio potrebbe essere quello di un Capo di Stato che è anche una spia di un paese straniero il suo tradimento sarebbe per forza anche un attentato alla Costituzione. Appare dunque preferibile che la duplice previsione di reato ai sensi dell’articolo 90 della Costituzione vada in realtà a configurare un tipo di reato unitario o meglio un’unica e complessa figura di crimine. Appare dunque nettamente migliore la Carta Costituzionale tedesca rispetto a quella Italiana sotto tale aspetto, essa infatti nell’articolo 61 prevede un solo reato costituzionale, il reato unitario di violazione premeditata della Costituzione e accanto a tale reato prevede anche la più semplice violazione premeditata dalla semplice legge federale. 

Appaiono dunque preferibili altre tesi con riguardo ai reati presidenziali d’ispirazione costituzionalistica le quali cercano di individuare i contenuti dei due reati di cui all’articolo 90 della Costituzione non soltanto con riferimento a norme penali (come le disposizioni sopra citate che puniscono reati contro la personalità interna od internazionale dello stato o comunque contro la Costituzione o la Forma di Governo)  ma soprattutto con riferimento a norme e a principi del nostro sistema costituzionale. Oggi pertanto la tesi più avallata in dottrina appare quella che ritiene che tali reati sussistano in tutte quelle ipotesi in cui il Capo di stato violi quel dovere di fedeltà e di correttezza nei confronti della Repubblica in positivo o in negativo, è bene dunque considerare ai fini della configurazione di tali reati tutti quei comportamenti del Presidente della Repubblica che determinano violazioni di norme costituzionali tali da produrre conseguenze più gravi di una semplice illegittimità costituzionale (violazioni dunque gravi in quanto relative a norme costituzionali fondamentali per la ricostruzione della sua figura e dei suoi limiti oppure violazioni ripetute di una norma costituzionale). Lo strumento utilizzabile come prima detto sarà poi rimesso alla discrezionalità totalmente politica della controparte statale dunque cercare di rimuovere il Presidente oppure no e quindi sollevare conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato sempre qualora questo sia possibile oppure tentare la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica.

In alcuni casi è inoltre anche possibile che il Presidente ponga in essere comportamenti penalmente rilevanti compiuti dal Capo dello Stato nell’esercizio delle sue funzioni, diversi però dall’attentato alla Costituzione o dall’alto tradimento. Insomma si configurano in questo caso semplici «crimini comuni», di natura colposa – come nel caso di una mera negligenza del Presidente – o magari anche dolosa come nel caso, per esempio, di reati ordinari (commessi per interesse privato) entrambe ipotesi che comportano una responsabilità penale ordinaria, ma anche e inevitabilmente conseguenze giuridico-costituzionali: l’obbligo implicito di immediate dimissioni. Nelle fattispecie considerate, infatti, si potrebbe ravvisare «un abuso dei poteri o una violazione dei doveri inerenti alla carica» (in spregio all’art. 54 Cost.) il che comporta una violazione semplice della Costituzione realizzata attraverso meri “atti incostituzionali”, senza che tuttavia ci siano gli estremi delle figurae criminis di cui all’art. 90 Cost. e senza che si debba necessariamente giungere, quindi, al giudizio d’accusa. La tesi qui sostenuta – di un Capo dello Stato chiamato a rispondere all’Autorità Giudiziaria Ordinaria, per i reati comuni, al pari di ogni altro cittadino (o, comunque, in grado di godere solo di forme contenutissime e strettamente indispensabili di immunità) potrebbe sembra per qualcuno esclusa da una lettura della disposizione costituzionale (irresponsabilità «tranne per i casi ecc.») ma in realtà appare specie dopo la dichiarazione di illegittimità del c.d. lodo Schifani e, ora anche del Lodo Alfano, meno controversa e di rilevante valore giuridico-politico. Nonostante lo sbocco comune minimo inevitabile (l’obbligo costituzionale implicito di dimissioni) questo terzo tipo di patologia non sembra rientrare nell’ambito della responsabilità giuridico penale costituzionale ma piuttosto nell’ambito della responsabilità giuridico costituzionale. La responsabilità giuridico penale costituzionale è invece quella riguardante i reati di cui all’articolo 90 della Costituzione che si configura nei casi più gravi in cui si configurano gravi comportamenti caratterizzati da dolo specifico e non solo eventuale, come sia pure in relazione all’ “attentato alla Costituzione” alcuni reputano anche perché è difficile immaginare un Capo dello Stato non pienamente consapevole della portata delle sue eventuali gravi azioni. Comportamenti, si badi, di natura non meramente in-, ma addirittura anti-costituzionale, che turbano, attraverso sovversione o eversione dell’ordine costituzionale, la regolare vita dello Stato e che, per questo, configurano il reato – si vedrà – unitario di attentato alla Costituzione e alto tradimento e la conseguente responsabilità giuridico-penale costituzionale del Presidente della Repubblica, necessariamente soggetto al giudizio d’accusa della Corte, con relative sanzioni penali, oltre che costituzionali (come la rimozione) ma anche amministrative e civili. In breve, l’eventualità del giudizio d’accusa di fronte alla Corte costituzionale (e non del mero giudizio per conflitto fra poteri) appare oggettivamente praticabile solo ove non sussistano “altri” tipi di responsabilità diversa da quella giuridico penale costituzionale e, quindi, solo quando il comportamento del Capo dello Stato non sia meramente in-, ma piuttosto anti-costituzionale.

In conclusione tali reati a fattispecie indeterminata di cui all’art 90 della Costituzione hanno un grave difetto di descrittività ma non sono atipici e dunque lasciati al libero apprezzamento del Parlamento in seduta comune e della Corte. Sono reati che prevedono un procedimento derogatorio rispetto a quanto stabilito dall’articolo 25 co 1 della Costituzione (in quanto il processo avviene dinanzi ad un unico organo giudicante la Corte Costituzionale integrata dai giudici aggregati e le sue sentenze non sono impugnabili venendo così leso il diritto all’effettiva tutela giudiziale). Sono inoltre reati personalissimi dato che (salvo nei casi di concorso) riguardano e può esserne chiamato a rispondere solo il Presidente della Repubblica, in quanto unico organo che può porli in essere abusando dei propri poteri o violando tutti quei doveri collegati alla carica. Infine essi si traducono in comportamenti necessariamente dolosi e chiaramente anticostituzionali e soprattutto pur essendo sempre costituzionalmente apprezzabili, non sono sempre penalmente previsti sebbene ad essi possa essere applicata una sanzione penale. 

L’oggettiva ed immensa difficoltà nell’indagare ulteriormente e con maggior dettaglio tali tipi di reati (con disappunto da parte della dottrina penalistica la più interessata nell’ambito penale di tali reati a vedere una disciplina minuziosa delle fattispecie considerate) deriva essenzialmente dalla vaghezza e genericità e non chiarezza delle funzioni del Capo dello Stato, le quali sono essenzialmente garantistiche ma non prive di rilevanti conseguenze per le attività di stretto indirizzo politico. Spesso il confine tra lecito ed illecito (e all’interno di quest’ultimo tra illecito sanzionabile politicamente, illecito sanzionabile in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello stato ed infine illecito valutabile solo tramite un giudizio d’accusa)  è fortemente dubbio con riguardo le azioni presidenziali e ciò è ancora più accentuato dalla presenza vicino a pochissime disposizioni costituzionali sicure di un immenso coacervo di precedenti, prassi e consuetudini costituzionali che vanno a determinare il ruolo del Presidente nel sistema italiano. Inoltre anche il fatto che siamo di fronte ad una situazione di totale mancanza di giurisprudenza da parte della Corte non aiuta affatto, in quanto la Corte Costituzionale mai finora si è trovata a dover giudicare sulle accuse mosse dal Parlamento in seduta comune nei confronti di un presidente della Repubblica. 

REATI PRESIDENZIALI E FORMA DI GOVERNO 

Punto molto controverso in dottrina è invece quello sulla forma di governo. Ci si chiede in dottrina se da un punto di vista giuridico la giustizia politica per i reati del Capo dello stato sia giustificabile sono nei casi di forme di governo presidenziali o semi – presidenziali o prescinda dal tipo di forma di governo, secondo il parere di Alfonso Celotto il bisturi usato dal legislatore nel 1989 avrebbe dovuto completare coerentemente, l’opera iniziata nei confronti dei reati ministeriali eliminando anche il giudizio speciale sui reati presidenziali, in quanto sempre a suo parere il giudizio italiano sui reati presidenziali non può in alcun modo essere paragonato ad esempio all’impeachment statunitense dove la figura di Capo di stato coincide con quella di Capo di governo oppure al giudizio da parte dell’alta Corte di giustizia sul reato presidenziale di alto tradimento previsto dalla costituzione della V Repubblica francese in quanto anche in tale ordinamento il Presidente costituisce un organo centrale nella determinazione dell’indirizzo politico a differenza del nostro dove prevale piuttosto la funzione di garanzia e controllo. Se è vero che dove c’è un potere c’è una responsabilità eventuale appare molto improbabile un giudizio di accusa nei confronti del Capo di Stato italiano, anche se va detto che nel nostro sistema italiano nonostante il presidente sia dotato di poteri piuttosto simbolici, e gli atti da esso posti in essere sono piuttosto atti dovuti con i quali si dà dignità e si formalizzano decisioni prese da altri organi, potrebbe con tali suoi poteri creare eventualmente gravi stalli al sistema giuridico costituzionale si pensi ad un Presidente che si rifiuta di licenziare una disegno di legge anche quando questo sia stato riapprovato per una seconda volta nel medesimo testo da entrambe le camere e anche quando da questa seconda approvazione sia passato il termine massimo di un mese. Inoltre capita nella prassi di osservare come in Costituzioni a forma di governo parlamentare un Presidente pur avendo secondo la Carta Costituzionale limitati poteri e dunque limitate possibilità di intervento nelle dinamiche politiche del paese, abbia però acquisito nel corso del tempo in maniera implicita, grazie a prassi o consuetudini costituzionali maggiori poteri incisivi. Pertanto pur non potendo paragonare il ruolo del Presidente della Repubblica in un sistema parlamentare con quello svolto in un sistema semi presidenziale o presidenziale, il Presidente della Repubblica potrebbe anche in un sistema del genere a seconda dei casi commettere un reato presidenziale, il nodo sta semplicemente nel decidere se nel nostro sistema si vuole per tale figura un giudizio speciale come quello attualmente previsto, oppure un giudizio equiparabile a quello del cittadino normale.  

GLI ATTI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E LE IMMUNITA’ DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

L’art. 3, primo comma, c.p, stabilisce che “La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato”. La norma richiamata enuncia il principio della obbligatorietà della legge penale che è espressione del più ampio principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione. A tale regola si aggiunge una deroga contenuta nell’inciso “salvo le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale”. Ci troviamo dinanzi alle c.d. immunità penali che descrivono un complesso di situazioni aventi presupposti e fondamenti diversi a seconda dell’ambito di applicazione e della fonte che le disciplina. Nonostante le diversità suddette, le immunità hanno un comune effetto che si sostanzia nella sottrazione dell’autore del fatto illecito alla sanzione penale. Tale sottrazione al potere punitivo dello Stato si giustifica in ordine all’ufficio che questi soggetti ricoprono nell’ambito del diritto interno od internazionale. Distinguiamo le immunità assolute da quelle relative, Le prime sottraggono l’agente a tutti i tipi di reato, senza distinzione tra gli atti funzionali e gli atti extrafunzionali; le seconde sono riconosciute solo durante la carica per gli atti posti in essere durante questa e richiedono un’autorizzazione al procedimento penale da parte di organi diversi dal giudice ordinario, vi sono poi infine ulteriori distinzioni le quali non saranno qui elencate.

Con riguardo al Presidente della Repubblica l’articolo 90 della Costituzione introduce due principi in tema di responsabilità presidenziale. Il primo di questi è l’irresponsabilità funzionale del Capo dello Stato. Il secondo si ricava al contrario e nel silenzio della disposizione costituzionale che, parlando di non responsabilità per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni esclude, dall’effetto immunizzante, gli atti extrafunzionali. Per quanto riguarda quella funzionale un’interpretazione individua come atti funzionali posti in essere dal Presidente, tutti quelli che vanno controfirmati ai sensi dell’articolo 89 della Costituzione. Tutti gli altri atti che risultano essere compiuti al di fuori delle funzioni presidenziali, e conseguentemente, sottratti alla controfirma, renderebbero il Presidente responsabile. Non va dimenticato, a tal proposito, che vi sono atti che il Capo dello Stato pone in essere in qualità di presidente di organi collegiali e che, secondo la prevalente dottrina, non andrebbero controfirmati. Conseguentemente, il Presidente sarebbe responsabile in quanto tali atti non rientrerebbero nella lettura congiunta degli artt. 90 ed 89 della Costituzione. L’ambiguità di queste interpretazioni sta nel fatto che il Capo dello Stato ricopre, automaticamente, le cariche di Presidente del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio supremo di difesa. La presidenza della Repubblica e le presidenze dei due collegi sono riunite nella stessa persona, ma l’una implica le altre, quindi non potrebbe farsi una scissione degli atti posti in essere in qualità dell’una o dell’altra carica. Tale dottrina dunque restringe le sue irresponsabilità ponendosi cosi in contrasto con un differente punto di vista che invece esclude la connessione degli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni alla controfirma ministeriale prendendo invece in considerazione l’elemento temporale. Secondo il giurista Paolo Rossi, il Presidente della Repubblica non sarebbe responsabile dei reati compiuti durante il mandato in occasione dell’esercizio delle sue funzioni,  dunque da reati quali lo stupro consumatosi ai danni della segretaria negli uffici del Quirinale oppure un omicidio colposo avvenuto durante una battuta di caccia organizzata in onore di un Capo di Stato straniero, essendo avvenuti in occasione dell’esercizio del mandato, non discenderebbe alcuna responsabilità presidenziale. Al contrario, spiega l’Autore, un incidente automobilistico avvenuto durante un viaggio in automobile diretto ad una visita familiare, renderebbe il Presidente responsabile in quanto la condotta sarebbe del tutto sconnessa dalla funzione svolta, tale tesi anche se contraria ai principi Repubblicani e democratici ampia le maglie dell’irresponsabilità presidenziale. Una terza interpretazione (la quale critica le due precedenti), infine, si pone a metà strada tra le precedenti ed interpreterebbe in modo più conforme al dettato costituzionale il problema dell’irresponsabilità. Questa tesi prescinde dalla controfirma e dall’elemento temporale ed accentua il nesso funzionale che intercorre tra la carica presidenziale complessivamente intesa e gli atti compiuti in virtù delle funzioni costituzionalmente attribuite oppure convenzionalmente conferite al Presidente. 

Per quanto riguarda gli atti extrafunzionali, l’art. 90 Cost. non dispone e da tale silenzio potrebbe implicitamente discendere una responsabilità giuridica (penale o civile) occorre capire se il Presidente della Repubblica ne risponda al pari di ogni cittadino oppure se, in virtù della carica ricoperta, egli ne sia immune. Inoltre, è importante distinguere se dagli atti extrafunzionali discenda una responsabilità civile o penale. Circa la soggezione del Presidente alla responsabilità civile, dottrina e giurisprudenza hanno risposto positivamente, per cui il Capo dello Stato risponderebbe al pari di ogni altro cittadino. Offrono spunti sul tema le vicende relative all’ex Presidente Cossiga. Oltre a riconoscere la responsabilità del Presidente in occasione delle esternazioni diffamatorie nei confronti di alcuni membri del Parlamento, la giurisprudenza ha offerto una buona linea di demarcazione tra gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni presidenziali e quelli extrafunzionali. Il Tribunale civile di Roma riconobbe la responsabilità del l’ex Presidente Cossiga e lo condannò al risarcimento dei danni morali arrecati alle parti offese, a seguito delle gravi dichiarazioni loro rivolte. In entrambe le sentenze, il Tribunale di Roma, richiamandosi all’interpretazione restrittiva dell’articolo 90 della Costituzione ed escluso che le esternazioni fossero riconducibili alle funzioni presidenziali (come tali sottratte dal regime dell’irresponsabilità) condannarono l’ormai ex Presidente Cossiga diventato allora senatore a vita. In seguito, Cossiga propose impugnazione presso la Corte di appello di Roma e qui i giudici ribaltarono la sentenza di primo grado riconoscendo che il senatore aveva, in quell’occasione, esercitato la facoltà di esternazione nell’esercizio delle sue funzioni e quindi era incluso nell’immunità di cui all’art. 90 Cost (optando dunque per una tesi maggiormente espansiva con riguardo la funzionalità dell’atto). Successivamente la Corte di Cassazione, nel disattendere la sentenza di appello, pur ammettendo l’esistenza di atti presidenziali atipici riconducibili alle funzioni presidenziali, affermò la responsabilità del senatore riconoscendo che le immunità discendenti dall’articolo 90 della Cost. opererebbero solo se gli atti costituissero esercizio delle funzioni e le dichiarazioni fossero strumentali od accessorie rispetto a tale esercizio. La sentenza della Corte di Cassazione portò, come è noto, ad un conflitto di attribuzione sollevato dinanzi alla Corte costituzionale, la quale, dopo aver chiarito che la valutazione sull’applicabilità dell’art. 90 Cost. spetta all’autorità giudiziaria, dichiarava che non potevano ritenersi coperti da tale garanzia tutte le attività del Presidente della Repubblica, comprese quelle extrafunzionali e private a prescindere dall’interpretazione che si voglia dare dell’articolo 90. La Consulta chiarì che nell’esercizio del potere di esternazione, potevano sottrarsi da responsabilità solo le dichiarazioni strumentali ed accessorie alle funzioni presidenziali. La Corte concluse nel senso per cui l’irresponsabilità presidenziale è un’eccezione alla regola della responsabilità per gli atti in violazione di diritti altrui e, pur dando atto delle difficoltà di distinguere gli atti funzionali da quelli extrafunzionali, chiarì che vi è la necessità – anche per il Presidente della Repubblica – di un legame indissolubile tra le attività poste in essere da questo ed i poteri appartenenti alla carica più alta dello Stato (esso appunto).

Questione diversa è invece quella relativa non alla responsabilità o meno ma bensì alla perseguibilità del Presidente della Repubblica per i reati comuni da lui commessi prima o durante il mandato. Analizzando i lavori della Costituente, emerge l’intenzione di lasciare sul punto una lacuna costituzionale. A questo vuoto, sono seguite in dottrina varie tesi ed interpretazioni. Una di queste sostiene la soluzione dell’improcedibilità dell’azione penale al fine di non impedire al Capo dello Stato lo svolgimento delle sue funzioni, dirette a tutelare la Costituzione nonché l’unità e la continuità dell’ordinamento. In senso conforme a tale orientamento, occorre ricordare l’episodio relativo al caso SISDE, nel quale fu coinvolto il Presidente Scalfaro. In tale occasione, vi fu il rifiuto del Procuratore della Repubblica di Roma di prendere in considerazione la posizione processuale del Presidente Scalfaro, dal momento che “la Costituzione impedirebbe di avviare qualsiasi indagine di natura penale a carico del Presidente della Repubblica. Tale affermazione, ovviamente, suscitò alcune polemiche data l’assenza di un divieto esplicito nella Costituzione. Secondo un’altra tesi35, largamente condivisa, l’improcedibilità nei confronti del Presidente della Repubblica è inaccettabile ed è vista come un intollerabile privilegio che comporterebbe due rotture con la Costituzione: la prima, rispetto al principio di eguaglianza, ai sensi dell’art. 3, e la seconda, ex art. 112, concernente il principio di obbligatorietà dell’azione penale, Inoltre, secondo qualcuno, attraverso l’improcedibilità, si impedirebbe al Presidente la naturalezza e l’autorevolezza delle delicate funzioni affidategli. In dottrina si afferma la tesi della procedibilità, facendo riferimento alla legge n. 219 del 1989, disciplinante i reati presidenziali ex art. 90. La legge stabilisce, agli artt. 9 e 10 che se i reati non rientrano in quelli previsti dell’art. 90, il Comitato ed il Parlamento in seduta comune devono declinare la propria competenza ed inviare gli atti alla giurisdizione ordinaria competente. Da ciò si desume che sarebbe sottoponibile ad un processo penale il Presidente della Repubblica in carica che commettesse reati comuni, cioè al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni. In realtà, anche la tesi che sostiene l’improcedibilità dell’azione penale nei confronti del Capo dello Stato, richiama l’art. 7, terzo comma, l. 219/1989, il quale stabilisce che non possono essere predisposte misure limitative della libertà personale, nonché intercettazioni telefoniche, perquisizioni personali o domiciliari, se non dopo la sospensione dalla carica del Presidente, disposta dalla Corte costituzionale. Da tale norma emergerebbe infatti il principio inverso, per il quale la persona che ricopre la carica di Presidente della Repubblica non può essere sottoposta a misure restrittive, considerando la delicata funzione che esercita. Di conseguenza, se le limitazioni di liberà personale possono essere disposte solo dopo la sospensione della carica da parte della Corte costituzionale, è legittimo pensare che per i reati comuni valga la stessa regola; opererebbe, dunque, l’improcedibilità fino alla cessazione dal mandato. Oltre tali considerazioni è bene però accennare le disposizioni legislative introdotte nel 2003 e poi, nel 2008, circa la sospensione del processo penale a favore del Presidente delle Repubblica ed in genere, delle alte cariche dello Stato: si tratta del Lodo Schifani e del Lodo Alfano, poi dichiarati incostituzionali dalla Consulta con le sentenze n. 24/2004 e n. 262/2009. La legge n. 140 del 2003, all’art. 1 disponeva che: “Non possono essere sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato, riguardanti anche fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime: il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato, il Presidente della Camera, il Presidente del Consiglio dei ministri, salvo quanto disposto dall’art. 96 Cost., il Presidente della Corte costituzionale“. Poi, in relazione ai procedimenti già iniziati prima della presente legge, ne disponeva la sospensione, salve le ipotesi ex artt. 90 della Costituzione. Questa legge, in sede di applicazione, suscitò non pochi dubbi di costituzionalità, in quanto, da un lato, introduceva una nuova sospensione processuale che produceva una stasi del procedimento con chiara violazione del principio della ragionevole durata del processo (art. 111 della Cost.); dall’altro, sembrava concedere un privilegio, in violazione del principio di eguaglianza. Tali sospensioni trovavano il fondamento giustificativo nell’interesse, altrettanto rilevante, della garanzia di continuità delle alte cariche dello Stato. Attraverso questa previsione legislativa si prevedeva però un’immunità ingiustificata, che andava al di là delle garanzie di indipendenza e buon funzionamento degli organi, in quanto l’art. 1 prevedeva la sospensione anche per i processi già iniziati e per fatti commessi antecedentemente all’assunzione della carica. Partendo da queste premesse, il Tribunale di Milano nell’ordinanza di rinvio alla Corte costituzionale, ne denunciava l’art. 1 in riferimento agli articoli 3 e 112 della Costituzione; inoltre, il giudice a quo riteneva incostituzionale la norma sotto ulteriori tre profili. In primo luogo, la materia era stata disciplinata da una legge ordinaria, laddove le immunità andrebbero regolate con leggi costituzionali40; in secondo luogo, la legge avrebbe ampliato, irragionevolmente, quanto già previsto dalla Costituzione; in terzo ed ultimo luogo, si riteneva aver introdotto una disciplina in contrasto con l’art. 90 Cost. che disporrebbe, in via interpretativa, la responsabilità del Presidente per gli atti extrafunzionali. Con queste motivazioni il Tribunale di Milano rinviava alla Corte la questione di illegittimità costituzionale del lodo Schifani. La Consulta, con sentenza 24 del 2003, dichiarò la legge incostituzionale per violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione. Infine la Corte osservò che la misura adottata dal legislatore tendeva a tutelare, giustamente, il sereno svolgimento delle funzioni, ma sottolineò che tale tutela doveva essere disciplinata dal legislatore in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto. Il legislatore, nonostante questa pronuncia di incostituzionalità, nel 2008 approvò una nuova legge concernente la sospensione dei processi a favore delle alte cariche dello Stato. Si tratta della legge n. 124 del 2008, conosciuta come Lodo Alfano. La previsione legislativa reintrodusse la sospensione a favore delle altre cariche dello Stato, ma questa volta escludendo dall’ambito di applicazione della norma il Presidente della Corte costituzionale. Inoltre a parere del ministro, il nuovo provvedimento si differenzierebbe dal lodo Schifani, che riprende in termini di contenuti, in quanto compatibile con quanto indicato nella sentenza della Corte che aveva in precedenza dichiarato l’illegittimità costituzionale della parte inerente tematiche simili a quelle trattate nella nuova legge. Il lodo Alfano prevedeva il termine di legislatura per la sospensione dei processi e la possibilità di proseguire con le azioni civili di risarcimento Con riferimento al Capo dello Stato, era stata introdotta nuovamente una parificazione con gli altri organi nonostante i richiami – nel 2003 – della Corte a non omologare, nella loro eterogeneità, i soggetti beneficiari delle sospensioni Conseguentemente la Corte, ravvisando le stesse violazioni presenti nella precedente legge dichiarò, con sentenza 262 del 2009 , l’incostituzionalità della legge 124/2008.

Volendo concludere il discorso relativo ai profili di responsabilità, perseguibilità e immunità nei confronti del Presidente della Repubblica appare opportuno parlare delle immunità del Presidente della Repubblica facendo riferimento ad un’importante pronuncia della Corte costituzionale: la numero 1 del 2013. La sentenza richiamata ha posto importanti principi in tema di immunità del Capo dello Stato. In tale occasione la Corte ha risolto un conflitto di attribuzione sollevato dal Presidente Giorgio Napolitano contro la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo che aveva, nel corso di indagini a carico del senatore Mancino, intercettato casualmente una conversazione avvenuta tra questi ed il Presidente. Si trattava delle indagini relative alle presunte trattative Stato-Mafia avvenute negli anni 1992 e 1994 in rapporto delle quali era stato ipotizzato il reato di violenza o minaccia aggravata ad un Corpo politico dello Stato. In particolare, nel periodo tra il 7 novembre e il 9 maggio 2012, sono state intercettate sulle utenze del sen. Mancino, 9295 telefonate, quattro delle quali hanno avuto come interlocutore il Capo dello Stato.

Alla luce delle risultanze investigative, la Procura di Palermo aveva deciso di rinviare a giudizio solo alcuni degli indagati. A tal proposito, la Procura aveva deciso di utilizzare le sole intercettazioni ritenute utili per l’instaurazione del giudizio, non comprendendovi i colloqui che vedevano coinvolto anche il Capo dello Stato. Nelle interlocuzioni tra il Quirinale e la Procura della Repubblica, da una parte il Pubblico Ministero dott. Messineo sosteneva che nessuna norma nell’ordinamento prescrive o autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto delle registrazioni quando, nel corso di un’intercettazione regolarmente disposta, siano state captate casualmente conversazione tra l’indagato e la persona nei confronti della quale non erano state disposte le intercettazioni medesime (a meno che questa persona non sia un soggetto mirato in quanto stretto collaboratore o magari coniuge del Presidente della Repubblica) . Rilevava inoltre il Procuratore che la successiva distruzione delle conversazioni dovesse avvenire solo dopo la ritenuta valutazione del contenuto delle captazioni stesse e solo se esse risultassero irrilevanti ai fini delle indagini, distruzione che va disposta dal Gip.  Secondo la Procura, la corretta lettura dell’art. 90 Cost. ostava a ritenere che “l’irresponsabilità del Presidente si estendeva ai reati extrafunzionali”. In sostanza, la Procura affermava che spettasse ad essa valutare la rilevanza processuale delle conversazioni casualmente captate e procedere pertanto, solo dopo questa valutazione, alla distruzione delle conversazioni. 

Di contro, la tesi dell’Avvocatura dello Stato affermava l’assoluta illegittimità (con conseguente inutilizzabilità delle intercettazioni medesime. Si sosteneva infatti che, la sfera delle immunità che la Costituzionale riserva al Capo dello Stato sono strettamente connessi ai compiti che egli è chiamato a svolgere, e che per il corretto espletamento del mandato presidenziale occorre che egli sia libero e che venga tutelata la sua riservatezza. Secondo l’Avvocatura quindi, vi sarebbe stata una lesione delle prerogative costituzionali del Presidente. L’immunità funzionale di cui all’art. 90 Cost. “non consisterebbe solo in una irresponsabilità giuridica per le conseguenze penali, amministrative e civili eventualmente derivanti da atti tipici compiuti nell’esercizio delle funzioni, ma anche in una irresponsabilità politica, diretta a garantire la piena libertà e la sicurezza di tutte le modalità dell’esercizio delle attribuzioni presidenziali, immunità strumentali alla carica ricoperta, ed alle funzioni svolte dal Presidente della Repubblica in modo da garantire “il massimo della libertà di azione e riservatezza”. Da ciò consegue che le intercettazioni casuali di cui è stato protagonista il Presidente della Repubblica dovessero essere immediatamente distrutte. 

La Corte risolveva il conflitto di attribuzione nel senso che “spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo di valutare la rilevanza delle intercettazioni di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica; e che non spettava alla stessa Procura, di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni indicate dall’art. 271, comma 3, del codice di procedura penale. La Corte motivava la decisione suddetta attraverso un’interpretazione sistematica delle norme che disciplinano le immunità del Presidente della Repubblica. In particolare la Corte, ha osservato come dalle funzioni che sono state attribuite al Capo dello Stato discende una posizione che si colloca “al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, neutralmente, al di sopra di tutte le parti politiche. Proprio in virtù di questa collocazione nel sistema, del suo ruolo di equilibratore del gioco politico, di garante della Costituzione e di rappresentante dell’unità nazionale, il Presidente deve essere tutelato nella sua riservatezza. Afferma la Corte infatti che “il fondamento della tutela della riservatezza delle comunicazioni presidenziali, non è l’espressione di una presunta – e inesistente – immunità del Presidente per i reati extrafunzionali, ma consiste nell’essenziale protezione delle attività informali di equilibrio e raccordo tra poteri dello Stato, ossia tra soggetti che svolgono funzioni, politiche o di garanzia, costituzionalmente rilevanti dunque il livello di tutela non si abbassa per effetto della circostanza, non prevista dagli inquirenti e non conosciuta ovviamente dallo stesso Presidente, che l’intercettazione non riguardi una utenza in uso al Capo dello Stato, ma quella di un terzo destinatario di indagini giudiziarie. 

La Corte pertanto rintraccia la natura di tale sottrazione non in un’immunità ma semplicemente dall’interpretazione delle norme costituzionali dalle quali emerge la posizione di superiorità e soprattutto di raccordo tra organi costituzionalmente riconosciuti e dotati di indirizzo politico del Presidente della Repubblica.

LA COMPETENZA DELLA CORTE COME GIUSTIZIA POLITICA PIUTTOSTO CHE GIURISDIZIONE PENALE

Al di là del fatto secondo cui il procedimento dinanzi alla Corte si svolge secondo le norme del codice penale e di procedura penale, diversi elementi fin qui elencati concorrono in modo determinante ad escludere che tale funzione fin qui esaminata della Corte Costituzionale possa inquadrarsi nella funzione di giurisdizione penale. Questi sono innanzitutto i confini estremamente ampi ed incerti dei reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione, il che contrasta con il principio di determinatezza del reato penale. La mancanza di indicazioni specifiche in ordine alle pene erogabili (ad eccezione del limite molto generale del non superamento della pena massima prevista dalle leggi penali vigenti al momento), la possibilità di irrogare sanzioni amministrative e costituzionali di ogni genere non soltanto accessoriamente ad altre pene bensì anche in modo autonomo, fino al massimo provvedimento della rimozione dalla carica di Presidente della Repubblica. Proprio in funzione di quanto appena detto l’amplissima discrezionalità di cui gode la Corte cui corrisponde nella fase iniziale del procedimento analoga discrezionalità per il Parlamento in seduta comune (e anche del Comitato parlamentare per i procedimenti di accusa) in ordine alla definizione della fattispecie per la quale promuovere l’atto di accusa, o ancora ulteriore connotato degli aspetti politici del giudizio della Corte è la composizione stessa della Corte Costituzionale (detta integrata a tal fine), nella quale come già detto prevale numericamente il giudice di estrazione parlamentare. Infine anche la inoppugnabilità delle sentenze di condanna emesse dalla Corte nei confronti del Presidente della Repubblica e di eventuali coimputati giudicati (per connessione insieme) a lui, il che contrasta con il principio generale dell’impugnabilità delle decisioni giurisdizionali.

Negare il carattere di giurisdizione penale di tale funzione non significa però dubitarne della legittimità, poiché le eccezioni derogatorie nei confronti di determinate disposizioni costituzionali (come ad esempio nei confronti dell’articolo 25 della Costituzione comma primo il quale recita appunto: “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”) essendo stabilite da disposizioni anche esse di rango costituzionale, sono deroghe del tutto legittime. Pertanto volendo concludere tale capitolo possiamo affermare che tale funzione della Corte sembra piuttosto inquadrabile nel concetto di giustizia politica rappresentando tale giustizia l’unico strumento (non essendo prevista la possibilità di revoca del Capo di Stato) per liberarsi di un Presidente della Repubblica che violi in modo grave e sistematico i propri doveri. L’onorevole Bettiol aveva a suo tempo avanzato una proposta già in seno all’Assemblea Costituente e dallo stesso poi ribadita anche in sede dottrinaria secondo la quale occorrerebbe una legge che dia attuazione all’articolo 90 della Costituzione, questa proposta né allora né oggi ha ancora trovato alcun riscontro nella classe politica. 

CONCLUSIONI UN ISTITUTO IN FORTRE CRISI 

L’ipotesi di un giudizio d’accusa per i reati di cui all’articolo 90 è altamente improbabile, andrebbe immaginato un Capo di Stato che non si limita ad un interpretazione estensiva della carta facendo leva su alcune lacune di essa (il che al massimo lo vedrebbe come parte passiva di un ordinario conflitto tra poteri dello Stato) ma bensì che sia intento a tradire o meglio sovvertire in maniera premeditata e dolosa l’ordine costituzionale dello Stato di cui esso paradossalmente è il primo garante. Potremmo immaginare due ipotesi una in cui esso opera da solo ed una dove invece opera insieme ad altri. Nel primo caso appare quasi impossibile che esso possa sovvertire l’ordinamento in quanto non controlla direttamente i servizi di sicurezza ne tanto meno ha il comando effettivo delle forze armate o del Ministero dell’interno o della Magistratura. Partendo dunque da tali premesse una giustizia speciale di tipo politico riservata solo al Presidente appare ingiustificata. Anche praticando l’ipotesi inverosimile in cui il Capo di Stato opera in totale autonomia, si tratterebbe di una personalità folle se non impazzita, inoffensiva e da considerarsi alla stregua di un incapace di intendere e di volere e dunque in tal caso il rimedio del giudizio di accusa sarebbe piuttosto sproporzionato o meglio inadeguato bisognerebbe piuttosto accertarne l’impedimento grave e permanente del nostro Capo di Stato (e qui vi è una lacuna nel nostro ordinamento costituzionale). Meno implausibile è invece la seconda ipotesi ovvero quella in cui esso svolga il suo tentativo eversivo con l’ausilio o la complicità di altri organi/poteri dotati di indirizzo politico. In tal caso non si vede perché il giudizio d’accusa sia un qualcosa di costruito solo per lui, in luogo invece di altri organi che avrebbero senza dubbio maggiori chances e mezzi per conseguire l’obbiettivo eversivo. In ogni modo in questo scenario di complicità tra Presidente e altri più incisivi organi/poteri possono immaginarsi 2 situazioni. 1) Il tasso di attuazione del progetto eversivo è tale che ormai la messa in stato d’accusa e il conseguente giudizio della Corte risultano utopistici, è presumibile infatti che dinanzi ad un contesto del genere (nei casi più eclatanti vero e proprio colpo di Stato) al Parlamento e d alla Corte sia impedito di funzionare.        2) Nella lotta tra il vecchio ordine costituito e il nuovo ordine costituendo prevale ancora il primo, in tal caso i vecchi poteri legittimi ancora sani, lesi dal comportamento del Presidente sollevano ben prima che sia troppo tardi uno più conflitti di attribuzione verso lui e gli altri poteri complici, al fine di ristabilire il totale ordine, e le normali attribuzioni costituzionali. In tale scenario pur non potendo escludere la possibilità della messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica va però detto che una volta ripristinato l’ordine costituzionale, gli scenari possibili sono tre.                         1) Il Presidente colto nella flagranza del tentativo eversivo è già stato impedito di portarlo a termine (per morte o arresto) e ciò porta ad una trascurabile serie di problemi di giurisdizionalità del Capo dello Stato. 2) In un quadro meno convulso l’evidenza di tale tentativo eversivo induce il Presidente a dimettersi ben prima del giudizio della Corte, infatti come accade sempre più spesso anche in altri ordinamenti l’impeachment è una minaccia piuttosto che effettiva sanzione, il fatto che spesso tale minaccia di utilizzo dell’articolo 90 induca alle dimissioni, conferma il carattere altamente teorico o comunque immaginario del giudizio speciale della Corte 3) In mancanza di evidenze serie e nette, persistendo solo dubbi sulla partecipazione del Capo dello Stato a tale progetto eversivo la giustizia politica della Corte avrebbe maggior senso, ma comunque a secondo il pensiero di una parte numerosa della dottrina costituzionalistica essa rischierebbe di apparire troppo clemente. Tranne dunque in quest’ultima ipotesi tale giudizio pur astrattamente possibile appare però non concretamente adeguato e utile. In conclusione la disposizione dell’articolo 90 rivela l’ingenuità della prospettiva che i nostri costituenti hanno inseguito, ovvero giuridicizzare costituzionalmente (addirittura sul piano procedimentale-processuale) un’eversione politico-costituzionale compiuta dal vertice del nostro Stato 

di MASI SIMONE