Il carcere duro

Uno degli argomenti di cui si sta parlando di più negli ultimi tempi è l’articolo 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario. La nuova stagione di proteste contro questo particolare regime carcerario, chiamato comunemente “carcere duro”, ci ha imposto il dovere, quantomeno morale, di riaffermare il ruolo di primaria importanza che questo istituto riveste nel nostro ordinamento giuridico.
Per riuscire nella nostra impresa è necessario spiegare, in sintesi per ovvie ragioni, la disciplina del 41-bis. Successivamente passeremo ad analizzare, e eventualmente screditare, alcuni dei motivi che animano coloro che vorrebbero vedere abolito l’articolo.
Che cosa dice l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario?
Ogni buon giurista sa che una norma giuridica si interpreta a partire dal suo testo. Per tale motivo cercheremo di raccontarvi l’articolo 41-bis attraverso le sue stesse parole. Prima di iniziare con la spiegazione è, però, necessario anticipare che l’articolo in questione contiene in sé due “anime”: la prima, presente nel comma 1, mira a salvaguardare l’ordine e la sicurezza all’interno del carcere, la seconda, enunciata dal comma 2, ha come obiettivo quello di proteggere la società, impedendo ai soggetti più pericolosi di comunicare all’esterno.


Comma 1:
“In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto”
In sostanza, il comma 1 dell’articolo 41-bis attribuisce al Ministro della Giustizia il potere di sospendere il regime carcerario ordinario all’interno del penitenziario in caso di rivolte eccezionale, o di “altre gravi situazioni di emergenza”
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La norma cerca, quindi, di fronteggiare le eventuali situazioni di crisi che si possono creare all’interno della prigione, attraverso l’eliminazione temporanea di alcuni “privilegi” di cui godono i carcerati, come ad esempio l’accesso agli spazi comuni, la libera circolazione all’interno del braccio di appartenenza, l’ora d’aria o i permessi premio. Ad una lettura incauta di questa norma potrebbe sembrare che lo Stato si avvalga di un simile regime carcerario ogni qualvolta che si presenti una rivolta o una minima criticità, in realtà non è così: questo strumento deve essere utilizzato solo come extrema ratio, ossia quando non esistono altre soluzioni praticabili.


Il comma 2 dell’articolo 41-bis è certamente quello più colpito dalla recente ondata di dissenso. Il testo, introdotto nel 1992, a ridosso della campagna stragista operata da Cosa Nostra, è il seguente: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’interno, il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4 bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente. In caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’articolo 4 bis.”


In parole povere, il dispositivo enuncia il potere del Ministro della Giustizia di attuare uno speciale regime di sorveglianza contro taluni detenuti in modo da prevenire pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblica: questo regime speciale mira a interrompere tutti i legami tra il detenuto e l’associazione criminale attraverso l’isolamento del primo.

Una simile disciplina non si applica in tutti i casi. Il detenuto, infatti, deve essere colpevole di alcuni specifici reati, ossia quelli aventi finalità terroristica o eversiva, il peculato, la concussione, i delitti di corruzione, associazione mafiosa o scambio elettorale politico-mafioso. Questo regime è applicabile anche per tutti quei reati che sono diretti ad agevolare una qualsiasi associazione mafiosa, terroristica o eversiva.
È bene notare che i delitti enunciati prima non sono stati scelti in modo casuale: queste condotte rappresentano gli strumenti con cui le associazioni criminali riescono a infiltrarsi nello Stato e a controllarlo dall’interno per poter portare a termine i loro scopi distorti.
Il legislatore per evitare un utilizzo arbitrario di questo regime di sorveglianza ha previsti altri tipi di limiti. In primo luogo è necessario che ci sia un grave pericolo per l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza, detto in soldoni, il 41-bis può essere applicato solo quando il detenuto, nonostante sia sottoposto al regime carcerario ordinario, costituisce una minaccia per la società (perché ad esempio dal carcere può dare o ricevere ordini).


In secondo luogo, la disciplina di questo comma può essere utilizzata solo in presenza di prove che dimostrano un collegamento tra il detenuto e un’associazione criminale mafiosa, terroristica o eversiva.
Tutti i commi successivi sono dei corollari alla disciplina definita nel comma 2: questi fissano il tipo di atto con cui il regime di carcere duro deve essere disposto (decreto motivato), i requisiti per decidere le misure da adottare, i termini (4 anni, prorogabili per ulteriori 2 anni) e tutte le formalità e i controlli.


Com’è la vita per un detenuto sottoposto al carcere duro?
Di particolare importanza è il comma 2-quater, poiché ci fornisce uno spaccato della situazione del detenuto sottoposto al 41-bis. Innanzitutto questi viene preso in carico dallo Stato e trasferito in un penitenziario dedicato al regime di carcere duro o in apposite sezioni specializzati (le più importanti si trovano a L’Aquila, Milano, Sassari e Spoleto).
Una volta trasferito all’interno della nuova struttura, il carcerato è sopposto a un regime di altissima sicurezza, sia interna sia esterna. Il detenuto viene così isolato dagli altri carcerati e controllato 24 al giorno attraverso sistemi di videosorveglianza. Oltretutto anche la corrispondenza, sia in entrata sia in uscita, viene esaminata e censurata. Il detenuto al 41-bis ha diritto a un singolo colloquio al mese e solo con familiari e conviventi, questo si svolge sempre attraverso un vetro. L’intera seduta viene registrata e ripresa, in modo tale da prevenire lo scambio di oggetti e di informazioni con l’esterno. In alternativa può essere autorizzato un colloquio telefonico, sempre registrato e solo con familiari o conviventi. Per quanto riguarda invece la sorveglianza delle celle, queste sono oggetto di numerosi controlli, tutti rigorosamente a sorpresa e anche più volte al giorno. Lo scopo di queste sortite è quello sia di verificare l’integrità strutturale delle celle, sia quello di accertarsi che il reo non sia in possesso di oggetti vietati, magari occultati all’interno del materasso o dei beni portati dai familiari.
Come si può ben intuire questo regime di sorveglianza è veramente duro, ma bisogna sempre tenere a mente che i soggetti sottoposti al 41-bis non solo si sono macchiati di alcuni dei reati più gravi previsti dal nostro ordinamento, ma costituiscono anche un pericolo attuale per l’incolumità dello Stato e dei cittadini. Insomma, si tratta di veri e propri criminali eccellenti.


Tra le critiche mosse dalla sinistra contro il regime di carcere duro, una sostiene che le condizioni di vita del 41-bis violino i diritti fondamentali dell’uomo. Noi, ovviamente, non mettiamo in dubbio che la vita all’interno di un regime chiamato “carcere duro” sia difficile, ma vogliamo ricordare che i diritti dei detenuti al 41-bis non vengono scalfiti nel loro nucleo essenziale.
Per fare un esempio, all’interno degli istituti penitenziari gli internati possono svolgere numerose attività: dalla lettura per saziare la mente agli esercizi ginnici per tenersi in forma, dal guadare la televisione all’incontrare i propri cari. È riconosciuto loro anche il diritto di socializzare con altri detenuti per 2 ore al giorno. Tutte queste attività sono comunque svolte sotto l’occhio vigile degli agenti di polizia penitenziaria.


Altro pericolo paventato dalle sinistre, sempre con riguardo al 41-bis, è la possibilità che una simile misura possa essere utilizzata a scopo politico. Per perorare la loro causa, la sinistra extraparlamentare ha tirato in ballo il caso di Alfredo Cospito, un anarchico condannato per strage dopo che, nel 2006, aveva piazzato e fatto esplodere 2 pacchi bomba presso la caserma dei Carabinieri di Fossano (Cuneo).
Nel maggio scorso il caso Cospito era finito davanti alla Cassazione: In questa occasione la Suprema Corte ha deciso di rimandare la questione alla Corte d’Appello di Torino, ordinandole di ricalcolare la pena non sulla base del reato di “strage”, bensì su quello di “devastazione, saccheggio e strage”, ben più grave. Contestualmente, ad Alfredo Cospito viene applicato il regime di carcere duro.
Proprio per quest’ultimo fatto le solite note associazioni di sinistra sostengono che ci sia stata un’applicazione politica del regime di carcere duro. Una simile tesi è falsa per il semplice fatto che il decreto che dispone il carcere duro può essere impugnato davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma, garantendo così un controllo giuridico dell’atto. Oltretutto, il Tribunale di sorveglianza di Roma, proprio in questi giorni, si è espresso sul caso Cospito, confermando il decreto ministeriale.


In definitiva, al netto delle critiche distruttive (e infondate) operate da una certa parte della politica, il regime di carcere duro resta la pietra angolare della lotta alla mafia e al terrorismo, senza cui ci troveremmo ancora immersi nelle stagioni stragiste di Cosa Nostra dei primi anni ’90.

Francesco Lanciano