Più o meno tutti, anche solo di nome, conoscono Marco Tullio Cicerone, noto anche come l’Arpinate. Famoso per l’arte oratoria, per merito della quale riuscì a sventare la congiura di Catilina e a ottenere la condanna a morte per tutti gli accusati, senza neanche ricorrere alla provocatio ad populum, prevista, in base alle leggi della res publica, proprio in caso di condanna alla pena capitale, ha segnato la storia romana, divenendo fonte di ispirazione per tutte le epoche successive. È il lustre rappresentante di un’epoca, quella repubblicana, che, ormai, stava volgendo al termine e lui,legato agli antichi valori, diviene un vero e proprio punto di collegamento. A determinare questa complessa figura non ci fu, però, soltanto la capacità ottimale di patrocinatore e l’estrema eleganza stilistica ma, soprattutto, un pensiero politico e filosofico molto complesso che, infatti, in numerose circostanze può essere riassunto con una famosa locuzione ciceroniana, vir bonus, dicendi peritus, intesa a fornire ai cittadini romani un modello di comportamento. Se nel passaggio, non poco traumatico, tra Res Publica e Principato, buona parte delle virtù e delle istituzioni romane furono mantenute vive e garantirono altri secoli a Roma, ormai Caput Mundi, di prosperità e potenza, lo dobbiamo anche a Cicerone. Se nell’incontro con la civiltà greca, la cui cultura, da quel momento in poi, ha costituito un organo fondamentale di Roma, i dotti e la classe dirigente seppero trovare una sintesi perfetta tra nuovo sapere e antichi valori, senza cedere o a spinte di chiusura o di accettazione totale e acritica, lo dobbiamo a Cicerone.

Comprendere bene il motivo di tali e notevoli qualità ciceroniane non è opera semplice ma, sicuramente, esporre sinteticamente le sue linee filosofiche e politiche, collegandole al turbolento contesto storico poc’anzi citato  rende sicuramente l’idea.

Secondo una definizione attribuita da Cicerone a Publio Cornelio Scipione Emiliano la res publica romana era res populi, apparteneva, cioè, al popolo.

Il sistema repubblicano prevedeva che la direzione della politica romana spettasse sostanzialmente ai membri del senato che detenevano il potere esecutivo come singoli magistrati. L’ordine equestre, tuttavia, per quanto inferiore a quello senatorio per dignità e per ricchezza, rivestiva alcuni incarichi di governo, in ambito militare, giudiziario e nella riscossione delle imposte. Non sussisteva, dunque, tra equites e senatori, una netta distinzione: i membri dell’ordine equestre, che probabilmente nella maggior parte dei casi fondavano la loro ricchezza su proprietà terriere, condividevano anzi con l’ordine senatorio educazione, cultura e mentalità e spesso arrivavano a rimpiazzare le famiglie senatorie estintesi o cadute in disgrazia.

Cicerone seppe comprendere bene il funzionamento degli apparati politici romani e delle istituzioni per come si erano configurate, durante e dopo la dittatura di Silla, alla luce dei contrasti tra la nobilitas e i populares; allo stesso modo, l’arpinate percepì acutamente la crisi che stava per travolgere la nobilitas, e il legame di tale crisi con l’emergere di nuove personalità di spicco e di nuovi metodi politici all’interno della fazione popolare. Cicerone mantenne di conseguenza una costante perplessità, nei confronti della politica dei populares.
Il nuovo scenario politico, determinato dalle conseguenze della riforma sillana, con la sua riproposizione della tradizionale linea politica degli optimates, e dai nuovi strumenti politici dei populares, spinse Cicerone a indirizzarsi verso una riflessione sull’organizzazione di un consenso nelle forme tradizionali, ma anche in quelle mutate per le forze presenti con le quali quella organizzazione stessa doveva ora fare i conti. A riprova, tra le altre cose, della profonda conoscenza di Cicerone del mondo greco sta l’elaborazione ciceroniana dell’ideale della concordia ordinum, che si colloca come termine di un lungo processo storico: la nascita del concetto era infatti legata alla speculazione politica dei Greci. E, infatti, proprio alla filosofia Cicerone dedica molti studi. Dopo attente letture e traduzioni delle principali opere di Platone e Aristotele scrisse dialoghi filosofici, quali il De legibus e il De republica, in cui si intravede nitidamente la capacità di adottare schemi del pensiero greco alla situazione imminente. Profondo ammiratore dello Stoicismo, ne sposa la teoria di un ordine perfetto che sistema le cose del mondo mai in modo incoerente, cui tutti sono tenuti a sottostare, per esaltare l’impegno politico e il valore del civis romanus prima dedito alla Patria che a se stesso.

In un’ottica che avrà fortuna e sarà di collegamento con la civiltà cristiana, partendo dal Timeo di Platone, proprio nel De Republica, scrivendo del Somnium Scipionis, ovvero del sogno di Scipione l’Emiliano di suo padre, descrive il mondo dell’aldilà,per la prima volta nella civiltà romana presentato come indissolubilmente legato alle condotte di vita terrene e come paradisiaco per gli uomini valorosi sulla Terra. In ciò non manca una condanna al suicidio, soprattutto ad un gesto praticato come tentativo di raggiungere la pace prima che sia giunto il tempo.

Figura complessa, le cui opere non sono di facile comprensione, alle quali la critica non smette mai di dedicare impegno ed energie. Non cessa mai di comunicare qualcosa di straordinario a chi non vuole recidere le radici e anela costantemente a scoprire qualcosa di più dei Padri.