Siamo italiani e non dobbiamo dimenticarlo.

Siamo italiani perché i nostri padri ce lo hanno reso possibile con il loro sangue. Quello patriottico è un sentimento che si presta ad essere preso in considerazione a fasi alterne, emergendo nei momenti in cui la nostra identità nazionale è in pericolo.

Da qui il nostro impegno.

Ricordo quando la zia di mio padre mi raccontò per la prima volta di Vergarolla, con la voce tremolante ma composta, di chi ha vissuto un periodo buio ma lo ha accettato ed è andata avanti. Quel giorno l’esplosione fece tremare la città, facendola cadere dalla bicicletta con cui passeggiava. Poi i funerali e il dottor Geppino Micheletti.

Era il 18 agosto del 1946 e sulla spiaggia di Vergarolla si stavano svolgendo le gare di nuoto promosse dalla società canottieri “Pietas Julia”, come da diversi anni. Famiglie con bambini che cercavano di ritrovare la tranquillità dopo la distruzione della guerra, con l’ansia per l’incerto futuro per gli italiani d’Istria.

Sulla stessa spiaggia giaceva del materiale esplosivo, delle mine antisommergibili tedesche oltre a diversi siluri, ritenuti inoffensivi in quanto vennero rimossi i detonatori. Da qui l’immediato sospetto dell’attentato.

L’esplosione del materiale bellico spazzò via la vita di più di 60 persone in un solo istante. Nell’angoscia i genitori sopravvissuti e ancora storditi dall’accaduto cominciarono a cercare disperatamente i loro piccoli, spesso ritrovando solo qualche piccolo brandello.

La notizia giunse rapidamente a Pola, in quanto la spiaggia si trovava lì vicino, tanto da far avvertire l’esplosione a tutti i cittadini incluso il dottor Micheletti, il quale si trovava nell’ospedale cittadino “Santorio Santorio”.

Un brivido glaciale corse lungo la schiena del dottore: quel giorno il fratello e la cognata con la loro bambina e i suoi due figli, Carlo e Renzo di 9 e 6 anni, si trovavano a Vergarolla.

Nonostante il terrore nel cuore non si scompose e rimase alla sua postazione: sapeva che di lì a poco sarebbero arrivati i feriti i quali avrebbero richiesto cure immediate.

Micheletti cominciò ad operare, con la speranza che i suoi cari fossero sopravvissuti ma giunse la triste notizia: sono tutti morti. Il corpo di Carlo venne ritrovato perché giocava lontano dalle mine. Quello di Renzo no, solo una scarpetta.

Nonostante l’inimmaginabile dolore, il dottor Micheletti continuò ad operare per ben oltre 24 ore senza fermarsi, cercando di strappare quante più vite possibili alla morte.

Mia zia ricordava ancora la straziante immagine del dottore che porta in spalla la bara di suo figlio ai funerali cittadini.

Dopo l’accaduto lasciò la città di Pola per evitare, un giorno, di dover curare gli assassini dei suoi cari.

Per il suo impegno gli venne riconosciuta una medaglia d’argento e nulla più.

Si sposterà a Narni, dove lavorerà fino al giorno della sua morte, sopraggiunta all’età di 56 anni. Un ambiente di lavoro ostile in una città ostile, dove spesso veniva denigrato dai comunisti locali per l’essere istriano, fuggito dal nuovo paradiso terrestre di Tito. Di lui si ricorda che prima di ogni operazione baciava il calzino di Renzo, ultima cosa rimastagli, per poi riporlo con cura nella tasca del camice prima di entrare in sala operatoria.

Un uomo che in silenzio continuò a fare il suo dovere e che per molti anni l’Italia se ne dimenticò, così come dimenticò le migliaia di istriani e dalmati che, per rimanere italiani, cercarono riparo in Patria. Una compostezza nel dolore che abbiamo il dovere di ricordare.

I nostri padri ci hanno permesso di definirci italiani.

I nostri padri ce lo hanno insegnato.

E noi non dimentichiamo.