Pallante è il giovanissimo re degli Arcadi, figlio di Evandro, compagno di Enea e straordinario generale, piegato solo dalla sorte, che lo vede destinato alla morte per mano di Turno, re dei Rutuli.

Ma perché dovremmo considerare un re d’Arcadia, una regione aspra e montuosa del Peloponneso centrale, un martire d’Italia?

Durante i secoli numerosi sono stati i tentativi di vedere nella sua morte il sacrificio necessario che avrebbe permesso la nascita di Roma prima, del suo impero e, in età risorgimentale, della nazione italiana.

Già Dante descriveva Pallante in Paradiso VI come primo eroe morto in terra italica,

la cui morte preannuncia la gloria di Roma. Ma questo non basta per definirlo ” primo martire d’Italia”, e ci penserà lo stesso Virgilio durante la descrizione del feretro dell’eroe (Eneide, XI) a legarlo in modo indissolubile, e forse non troppo casuale, alle sorti del Bel Paese: il corpo di Pallante viene adagiato su rami di corbezzolo durante il tragitto che porterà alle soglie della casa paterna, pianta che crebbe rigogliosa sulla sua tomba situata sul Palatino e che è tutt’ora un simbolo patrio italiano in virtù della sua particolare colorazione autunnale, costituita da foglie verdi, fiori bianchi e frutti rossi.

I tre colori divenuti poi della bandiera nazionale, secondo la ricostruzione del professor Renato del Ponte, connotano inoltre le tre tribù dei Ramnes, Titienses e Luceres, con cui Romolo creò l’antica Urbe; e ancora, le bandiere di colore album,

roseum e caeruleum venivano anticamente issate sul Campidoglio per convocare i comitia centuriata, curata e in caso di tumultus (mobilitazione generale). I tre colori, sacri a Marte (rosso), Giove (bianco) e Venere (verde) li ritroviamo anche nelle fazioni delle corse dei carri al circo: Russati, Albati, Virides. Sarà poi Giovanni Pascoli a consacrare definitivamente la figura di Pallante a precursore della causa nazionale e il tricolore a simbolo per eccellenza del territorio italico con la sua ode “Al corbezzolo” e il carme “Inno a Roma”.