Quando ci si identifica in un Popolo, lo si fa attraverso il suo retaggio: ci si sente discendenti della sua storia, costruita un secolo dopo l’altro dai suoi personaggi più o meno grandi, più o meno illustri.

   L’italiano spesso fatica nel trovare quegli elementi del proprio passato utili a creare dentro di sé quella coscienza “nazionale” e generalmente sono identificazioni per lo più legate al contesto circoscritto in cui vivono o sono cresciuti.

  Ma quello italiano è un popolo nato dall’insieme straordinario di diverse genti: toscani, napoletani, piemontesi, milanesi, veneziani, romani. Ognuno con sue specificità e con propri retaggi.

   L’unificazione nazionale si compì con difficoltà, venne sovente osteggiata, per essere poi poco sentita e valorizzata se non in alcuni rari casi, periodi o eventi.

   Nondimeno possiamo vantare figure di assoluto rilievo: artisti quali Michelangelo e Canova, letterati come Dante, Petrarca e Boccaccio oppure geni quali Leonardo, Brunelleschi e Marconi. Campi questi prettamente artistici, culturali e scientifici, dove l’italico genio ha dato prova della sua indiscussa levatura.

  Siamo molto meno conosciuti invece nelle arti belliche: poco infatti si disquisisce sui condottieri che resero gloria alla loro Patria (pre o post-unitaria). L’italiano stesso si vede come un popolo pacifico e poco legato all’ambito militare, cosa che contribuisce alla costruzione e mantenimento dell’immagine di un popolo poco incline (o addirittura incapace) di condurre un conflitto armato.

   Ciò deriva principalmente dalla scarsa conoscenza del legame che i nostri antenati nutrivano nei confronti dell’attività guerresca, volendosi concentrare unicamente sugli ultimi infausti eventi bellici di fine ‘800–prima metà del ‘900 di cui fummo protagonisti, in particolar modo l’esito del secondo conflitto mondiale, preceduto dalla più che nota sconfitta di Caporetto (caso più unico che raro in cui la sconfitta in una battaglia viene commemorata più della finale vittoria nella guerra), per non parlare dell’esperienza ancora più datata della disastrosa sconfitta subita ad Adua (e parliamo del 1896!).

   Esistono tuttavia numerosi esempi i quali potrebbero facilmente ribaltare tale visione di noi stessi, ad esempio ricordando i grandi condottieri rinascimentali come Giovanni Dalle Bande Nere, Alberico da Barbiano o Eugenio di Savoia, famosissimi nella loro epoca e i cui servigi vennero richiesti in tutta Europa; oppure i grandiosi ingegneri militari esperti di fortificazioni (e richiestissimi anch’essi), come ad esempio i fratelli da Sangallo e i loro seguaci, i quali crearono uno stile di architettura militare conosciuto poi con il termine di “alla moderna”. Personaggi che sapevano dimostrare brillanti capacità belliche e muniti di un ingegno e un’audacia straordinari.

  Ed è proprio di una persona in particolare che vorremmo parlare in questi due articoli, ricordandone l’eroismo dimostrato fino alla sua tragica fine: il Rettore della città di Famagosta Marcantonio Bragadin.

   Nato a Venezia il 21 aprile 1523, conseguì gli studi per divenire avvocato, mestiere che svolse fino al 1543, anno in cui si diede alla vita di mare sulle galee. Tornerà nella città lagunare per svolgere alcuni incarichi nelle magistrature cittadine fino a quando, nel 1569, viene nominato Rettore di Famagosta, città dell’isola di Cipro (all’epoca sotto il dominio veneziano: venne infatti ceduta nel 1489 dalla regina Caterina Cornaro).

   Questo periodo storico tuttavia era caratterizzato da una minaccia costante per i popoli non musulmani del mediterraneo orientale, in particolar modo per i possedimenti veneziani: l’espansionismo ottomano.

   Conscio di tale pericolo, il Bragadin si apprestò a rinforzare le fortificazioni cittadine in vista di futuri scontri con la Sublime Porta. E non a torto: solamente un anno dopo (1570) scoppierà quella che verrà conosciuta come quarta guerra turco-veneziana, che porterà alla battaglia di Lepanto (1571) per concludersi infine nel 1573, vedendo al contempo la perdita di Cipro in favore degli ottomani e la perdita da parte degli stessi del predominio navale nel mediterraneo.

   Nei primi di luglio, l’esercito turco guidato da Lala Kara Mustafa Pascià, ottomano di origini bosniache, assediarono la capitale cipriota Nicosia, la quale reggerà l’urto dell’assedio per circa un mese. Sarà verso la fine di agosto che l’ottomano, forte di 200.000 uomini e di 1500 cannoni, comincerà l’assedio di Famagosta.

   Affiancato da Astorre Baglioni, condottiero e governatore della città il quale rimarrà accanto a Bragadin fino alla fine, e al comando di soli 7000 uomini (circa), il veneziano resisterà agli assalti turchi per quasi un anno. Isolati, con scarsi rifornimenti (i pochi che riuscivano a superare il blocco navale del nemico non erano sufficienti) e sempre più esausti, gli assediati sembravano essere immuni al timore che avrebbero dovuto incutere i numeri e la forza bellica del nemico: numerose furono le sortite dei veneziani e ciprioti ai danni dei turchi i quali subirono perdite ingentissime (sembra ivi morì lo stesso figlio di Lala Pascià), riuscendo addirittura a recuperare il gonfalone della città di Nicosia che i turchi sfoggiavano in sfregio di fronte alle mura della città per minare il morale degli avversari.

   Ma le brecce nelle mura causate dai cannoni nemici, la costante perdita di soldati nonché la scarsità di derrate alimentari, costrinsero il Bragadin alla resa, portando all’epilogo l’epica difesa del possedimento veneziano nel Mediterraneo orientale.

Si apre così l’ultima fase nonché la più ignobile: la presa di possesso della città con il conseguente supplizio dei suoi abitanti, primo tra tutti il suo rettore, argomento di cui tratteremo prossimamente in un secondo articolo.