24 Febbraio 2022: le Forze Armate della Federazione Russa invadono il territorio ucraino, trovando così una realizzazione al conflitto russo-ucraino che proseguiva dal 2014. Quella che era stata considerata dall’Occidente come il possibile inizio di un’ipotetica Terza Guerra Mondiale, si è rivelata una guerra che, oltre a causare la morte e l’esodo di migliaia di cittadini russi e ucraini, ha portato alla distruzione di gran parte delle terre ucraine con la perdita, tra l’altro, della loro storia. Già nell’anno corrente si stimano 7 miliardi di danni per gli oltre 550 danneggiamenti segnalati dal Ministero della Cultura ucraino. I bombardamenti russi hanno determinato la rovina di diversi Oblast’, i corrispettivi delle regioni in alcuni Stati slavi e nelle ex repubbliche sovietiche, di cui il più colpito sembra essere sicuramente quello di Kharkiv. Prima capitale dell’Ucraina, che cedette il posto a Kiev, nel corso della storia ha riportato numerose ferite, anche perché era stata già interamente distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale dai conflitti tra l’Armata Rossa e le forze dell’Asse. Il patrimonio artistico della città, anche durante questa disputa, è stato pressoché oltraggiato, arrivando all’abbattimento e al danneggiamento di diverse sedi culturali.

 

“I nazisti sono tornati. Esattamente 80 anni dopo.” Queste le parole del Ministero della Difesa ucraino dopo essere venuto a conoscenza dell’attacco russo nei confronti del Memoriale dell’Olocausto a Drobitsky Yar, proprio alla periferia di Kharkiv. 

Le bombe russe hanno raso al suolo anche il Museo letterario Hryhorij Skovoroda, edificio del XVIII secolo intitolato a uno dei più grandi filosofi del ‘700, le cui origini erano ugualmente oggetto di astio tra Russia e Ucraina: nonostante fosse cosacco-ucraino, infatti, aveva lavorato sotto l’Impero Russo. Secondo l’agenzia di comunicazione Nexta, la collezione è stata comunque salvata e portata in un luogo sicuro prima dell’inizio delle azioni militari.

 

Uguale destino ha avuto la raccolta all’interno del National Museum of the History of Ukraine di Kiev, comprendente capolavori come i reperti archeologici dei tumuli degli Sciti o i gioielli di origine bizantina, che è stata posta sotto protezione, anche grazie all’aiuto internazionale, per far sì che sfuggisse ai raid russi. Come testimonia il direttore del museo Fedir Androshchuk, questo complesso può essere considerato un vero e proprio simbolo del conflitto tra russi e ucraini: se sotto l’Impero russo la struttura veniva intesa come un’“istituzione ideologica” per riunire Russia, Ucraina e Bielorussia sotto un unico credo marxista-leninista, dopo il 1991 è stata riconsiderata la sua funzione per dare un’identità alla nuova nazione. 

Purtroppo non tutte le altre collezioni nazionali sono state salvate, tanto che, secondo la stima dell’Amministrazione degli archivi di Stato dell’Ucraina, circa il 50% del patrimonio archivistico è stato saccheggiato, tra cui quello del Museo d’arte regionale Oleksiy Zhovkunenko a Kherson, per poi essere trasportato dai russi in Crimea, al Museo Chersoneso di Sebastopoli. 

Un edificio però, nonostante le continue minacce di attacco, non è stato ancora toccato: è la Cattedrale ortodossa di Santa Sofia a Kiev, dichiarata dall’UNESCO “Patrimonio dell’Umanità”. La chiesa, preziosa per i suoi meravigliosi interni con mosaici in stile bizantino, vanta una storia millenaria. Risale al Rus’ di Kiev, antica monarchia degli Slavi orientali, e in particolare al 1037, quando il sovrano Jaroslav I decise di ispirarsi all’omonima cattedrale di Costantinopoli, oggi Istanbul, per realizzare il suo capolavoro. Già nel 1920, dopo la campagna antireligiosa sovietica, era stata salvata dalla distruzione da parte dei russi grazie agli storici e agli uomini di cultura. E la leggenda narra che, finché sarà preservato il mosaico della Vergine Orante, la città di Kiev non dovrà temere la caduta. Un buon auspicio per una comunità così afflitta. 

Eppure, i cittadini non perdono il loro amore per la cultura neanche in una situazione così difficile, come testimonia la storia che arriva dal Teatro dell’Opera di Kiev, aperto nonostante le bombe. “Guerra! Guerra! Sterminio all’invasor!” Così recita il coro trionfante degli egiziani sugli etiopi nell’”Aida”. Ma, durante il conflitto, questo grido diventa più un inno alla forza ucraina sull’esercito russo. Il teatro non si ferma finché, al suono dell’allarme antiaereo, gli spettatori sono costretti a rifugiarsi nel seminterrato insieme a tutta la compagnia coinvolta nella rappresentazione. Eppure, al termine del pericolo, la reazione del popolo ucraino è sbalorditiva, come racconta la vice direttrice del corpo di ballo, Dina Sazonenko: “Quando è finito lo stato d’allerta, pensavamo che la gente volesse tornare a casa. E invece sa che cosa è successo? Ci hanno chiesto di riprendere lo spettacolo. E lo abbiamo fatto.” Sarebbe fiero del risultato Oleksandr Shapoval, ex primo ballerino ucciso al fronte per combattere al fianco della propria patria, come aveva lottato il nonno durante la Seconda Guerra Mondiale. “La gente ha bisogno di non venire schiacciata dal conflitto. E nell’arte trova un’occasione di ricarica e una sorgente di speranza.” Questa la conclusione della vice direttrice. Si hanno così due modi diversi di portare avanti una guerra: con le armi vere e proprie e con l’arma silenziosa, ma forse ancor più efficace, della cultura. Ma nel primo caso, ne vale veramente la pena?

Vittoria Schina