Ci troviamo nel pieno delle Guerre Veienti, gli innumerevoli conflitti che accompagnano la storia di Roma fin dall’epoca dei re assumendo dunque un carattere quasi leggendario, e che si concludono solo nel 396 a.C. con la caduta della città etrusca di Veio. Motivo di scontro tra le due città fu il controllo del Tevere, da cui dipendevano gli approvvigionamenti di entrambe le città, come anche delle saline situate sulla sua foce e della via che portava alla città etrusca di Capua, con cui Veio ha continuato ad avere legami per tutta l’età arcaica. Le guerre sarebbero continuate con fortune alterne fino alla vittoria finale di Roma, ma nel 477 a.C. la nostra fonte principale, i Libri Ab Urbe Condita di Livio, seppur non contemporanea ai fatti, offre un ritratto abbastanza dettagliato degli avvenimenti di quell’anno. La gens dei Fabii ha un ruolo centrale nella vicenda: famiglia di antichissimo lignaggio, ha offerto fin dall’inizio dell’età repubblicana numerosi consoli allo stato romano e aveva una reputazione di tutto rispetto, sebbene fosse invisa a gran parte dell’aristocrazia romana per la sua capacità di accumulare potere con i suoi membri.


Per motivi non chiari, i Fabii decisero di affrancare l’Urbe dalla guerra contro Veio e di renderla una “guerra privata”, sostenendone i costi e gli onori.
Dopo la dichiarazione del console Cesone Fabio Vibulano al Senato, il giorno dopo partirono poco più di 300 uomini in direzione del fiume Cremera, tutti patrizi e membri della stessa casata, acclamati come eroi, ed uscirono dalle mura cittadine attraverso la celebre “Porta Carmentale”, che dopo la spedizione dei Fabii sarà rinominata “Porta Scelerata”.
Probabilmente le forze messe in campo dai Fabii contavano quasi 5000 unità, delle quali i membri della gens potevano effettivamente arrivare a 300, costituendo la cavalleria vera e propria.


In un primo momento la guerra sembrava volgere a favore dei Romani, finché caddero imprudenti in un’imboscata ordita dai Veienti: gli Etruschi iniziarono a far supporre di essere ancora più indifesi di quanto non lo fossero realmente, rendevano abbandonati alcuni territori per fingere un maggior timore dei loro agricoltori, cessarono di trattenere i loro animali domestici per far pensare che fossero stati lasciati andare durante delle fughe frettolose, fecero indietreggiare le forze armate inviate ad ostacolare le scorrerie. La resistenza dei Fabii sembrava tuttavia non cedere, quando gli Etruschi presero l’altura da cui erano discesi i soldati romani, chiudendo questi in una morsa letale. Dal massacro di salvò un solo uomo, Quinto Fabio Vibulano, che sarebbe divenuto console dieci anni dopo.


Questo episodio non può che ricordare la ben più celebre Battaglia delle Termopili, combattuta dai 300 Spartani guidati da Leonida e svoltasi solo 3 anni prima della Battaglia del Cremera, nel 480 a.C. È indubbio che il sacrificio degli Spartani sia un dato di fatto, mentre dovremmo dubitare della veridicità di Livio: ci troviamo di fronte a uno dei tanti casi in cui la storiografia romana, cosciente di non poter spiegare determinati avvenimenti, di dover rendere il più possibile coerente la storia di Roma e di darle lustro, ricorre all’aiuto della storiografia greca, reinterpretando la storia greca e piegandola all’ideologia e al costume dei Romani. Fu così che la Battaglia del Cremera e il comportamento dei Fabii, seppur in un quadro puramente leggendario e con tutta probabilità ricostruito su fonti tutt’altro che attendibili, entrarono a far parte del’ampio novero degli exempla, i modelli di comportamento che incarnano i valori aristocratici e gli ideali repubblicani.