Chi, studiando la storia dell’antica Roma e, più propriamente, degli ultimi secoli della fase repubblicana e quella imperiale nel suo complesso, non ha mai sentito parlare delle “province”? Queste hanno un ruolo particolarmente rilevante e sono certamente un tratto distintivo di quello che era un impero. Tuttavia in pochi sanno come erano amministrate e a quali leggi sottostavano. Ciò rappresenta un vulnus consistente, specialmente in un periodo in cui l’ideologia del Globalismo tende a presentare l’Impero romano come multiculturalista e poco attento alle differenze che intercorrevano tra la città Caput Mundi e gli altri territori.

Per spiegare tutto in modo ottimale è necessario attuare un sunto cronologico della nascita e dello sviluppo delle province.

La prima provincia di Roma venne costituita nel 241 a.C, come esito della Prima Guerra Punica; si tratta della Sicilia. Nel 237 a.C vennero annesse la Corsica e la Sardegna, in seguito la Spagna Citeriore.e la Macedonia. Nel secolo successivo l’Africa, la Siria e man mano tutti i regni ellenistici. Dai dati cronologici si ricava che Roma poté espandere la propria influenza e il proprio dominio sull’Italia meridionale e, successivamente, sul Mediterraneo, soltanto dopo la sconfitta di Cartagine. L’organizzazione dei nuovi territori annessi venne realizzata dal generale che li aveva conquistati, tramite il ricorso ad una lex provinciae. Si decisero le unità amministrative in cui suddividere l’intero territorio e l’autonomia di cui potevano godere le città rispetto al potere provinciale di Roma. Tutti erano tenuti a pagare un tributo, anche se le regole variavano sulla base dell’atteggiamento tenuto nei confronti di Roma; in ogni caso, il governatore della provincia, un console o un pretore, aveva piena autonomia giudiziaria e amministrativa e lo status di una provincia, che poteva essere libera, stipendiaria o libera et immunis poteva mutare sulla base dell’esclusiva volontà di Roma. Con l’avvento del Principato augusteo fu tracciata una netta distinzione tra le province pacificate sottoposte, quindi, al controllo del Senato, e quelle non pacificate, sottoposte al controllo del Princeps.

Premesso ciò, sinteticamente, si può già avere un’idea di come Roma si percepisse rispetto alle altre città. Queste, in molti casi, conserono un’autonomia limitata, soprattutto culturale e religiosa, quando non in contrasto con il diritto romano ma l’assimilazione non ci fu mai, se non con determinate popolazioni. I cittadini delle province godevano dello stato di Peregrinus, ovvero di straniero libero e in pace con Roma. I peregrini, però, non potevano partecipare attivamente alla vita politica di Roma e non potevano contrarre iustae nuptiae con i cittadini Romani. Potevano commerciare con Roma ( ius commercii) sulla base di precise disposizioni. Un neonato acquisiva la cittadinanza romana, soltanto nel caso di unione tra un cittadino romano e una donna straniera. Questo status, fino alla constitutio antoniana, ovvero alla decisione di Caracalla di concedere a tutti gli abitanti dell’impero la cittadinanza romana, toccava al 90% grossomodo degli uomini che abitavano nei confini dell’impero Romano. Eccezioni considerevoli furono fatte, soltanto nel I secolo a.C, per gli abitanti dell’Italia centrale, ormai a tutti gli effetti cittadini romani da un punto di vista culturale, linguistico e viste le numerose alleanze matrimoniali stipulate in passato, e, poi, a tutti gli appartenenti alla penisola italiana, e, in parte, a quelli della Gallia, con eccezione dei “greci” d’Italia,( Sicilia Calabria etc) con cui comunque furono stipulati accordi privilegiati. Si può, quindi, parlare di “integrazione romana”, soprattutto se si ragiona sulla notevole influenza che la cultura ellenistica ha avuto sull’impero romano e sulla possibilità di ottenere la cittadinanza romana a determinate condizioni, ma non è possibile intenderla come omologazione. I Romani avevano compreso che il modo migliore per mantenere la prosperità e la pace fosse far vivere ognuno secondo i propri costumi ma entro i confini di un territorio estremamente vasto, quindi, non paragonabile a quello degli stati odierni, e con la stretta condizione di trattare non ugualmente chi poteva definirsi civis romanus o soggetti al diritto latino e chi, invece, era straniero.

Quanto sarà attuato da Caracalla, spesso, viene preso ad esempio e lo si confonde con il tutto. Sul punto si tornerà successivamente, soprattutto per illustrare il periodo generale di decadenza nel quale si inserisce la concessione indiscriminata della cittadinanza romana.