Nella solitudine può esserci speranza?
Interrogativo non semplice. In fondo quando si è soli difficilmente vengono in auge sentimenti e valori positivi. Quando sei solo tocchi con mano la vastità del vuoto. Navighi in questo non-luogo comprendendo la profondità del medesimo, senza fine. Una landa desolata si dispiega dinnanzi a te, sconfinata e esposta alle intemperie, senza riparo. Vorresti salvarti ma l’unica cosa che puoi fare è tentare di sopravvivere, senza certezza. Allora che fare? Come uscirne?
Uscire. Questo termine ci porta ad una considerazione preliminare: se devi uscire ciò significa che, in questa landa, da una parte sei entrato ed è allora tale ingresso che ci porta a definire come mai ora sei solo. Perché è questa che ci permette di cogliere da cosa deriva questa solitudine.
Esistono varie “porte d’ingresso” che portano a questa dimensione di vuoto, allora dobbiamo capire qual è la nostra. Dobbiamo comprendere di che solitudine stiamo parlando.
Gridare. Cerchiamo di definire l’uomo di cui ci stiamo occupando. Se qualcuno grida ciò significa che ha qualcosa da dire, anzi necessita ontologicamente di esprimersi. Però in tale situazione non sta parlando normalmente ma è tenuto ad alzare la voce al punto da gridare. Il motivo è ovvio: nessuno sta ascoltando. Se manca un interlocutore, se viene meno un uditorio, disposto a sentire cosa stai dicendo, l’unica cosa che resta da fare allora è gridare. Però un’avvertenza: per gridare non si intende urlare. Si grida per una disperata necessità, invece si urla per carenza di contenuti di cosa si intende dire. È una differenza qualitativa. Colui che grida sa cosa vuole dire, crede in ciò che pronuncia, ma non essendo ascoltato è costretto a cambiare il tono con il quale si esprime, grida appunto. Colui che urla, invece, è in difficoltà per il solo fatto di esprimersi, poiché ciò che dice non è sostenuto da conoscenza, decisione e credo.
Credere .Questo è un altro elemento essenziale che ci permette di capire di che solitudine ci stiamo occupando. “Crede soltanto chi coltiva valori, il resto osserva”. Qua risiede la differenza tra due macro-tipologie di persone: gli attori e gli spettatori. I primi sono gli unici a credere. I soli ad assumere responsabilità. Considerazioni causali. Per il fatto che si crede si hanno idee, speranze, sentimenti, i quali, però, non hanno connotati materiali, ma ideali. È una tensione morale, non si pensa a se stessi, ma a qualcosa di più grande. Non solo a chi ci sta accanto, ma soprattutto a chi verrà dopo di noi. Avendo tali valori senti di dover fare qualcosa, l’inerzia la si disprezza perché si comprende che rimarresti altrimenti schiacciato dal peso delle scelte altrui. Aut aut: la storia o la fanno gli altri e la studi o la fai te e ci entri. Questione di scelte. Entrare nella storia necessita di assumere responsabilità. E queste richiedono scelte. Un’avvertenza: non si intende professare il successo egoistico nel scrivere la storia, ma questo risulta essere un mezzo in vista di un fine, uno scopo superiore che trascende la dimensione personale dei singoli. Infine, per assumersi quelle responsabilità di cui prima devi avere coraggio, che per essere inflessibile deve basarsi su quelle idee, valori e sentimenti, gli stessi che ti hanno spinto a bussare alle porte della storia. Ma questo spirito ideale oggi è residuale. Torniamo nella nostra landa. Essere incompresi è il destino che spetta a coloro che credono. Inconcepibile risulta essere la tensione al dovere, la quale porta al sacrificio, alle rinunce. Queste tuttavia vengono intese come privazioni e limitazioni della propria libertà individuale per chi non le accetta, per chi non ne sposa la causa. Nessuno è più disposto a sacrificare se stessi per quel qualcos’altro di cui abbiamo detto. L’Io è il limite massimo dell’esistenza. Saresti disposto a porre in secondo piano la tua vita per donarla a qualcos’altro? Saresti disposto a vivere nel fango per evitare che altri ne rimarranno in futuro sommersi? Saresti disposto al noi anziché a quel limite ultimo dell’io? I più non risponderanno neanche a tali quesiti dato che, con ogni probabilità, non se li saranno mai posti. Invece colui che crede ci convive ogni giorno, avendovi già risposto…
Speranza .Questa è essenziale. Siamo partiti da un quesito che presupponeva se la stessa potesse sussistere nella solitudine. Ma prima arriviamo ad alcune conclusioni. Di chi è questa solitudine? Ai fini delle nostre considerazioni è solo chi ancora oggi ha l’ingenuità di credere in qualcosa, chi ama ancora valori e ideali. Costui ha dentro di se una tensione morale che lo porta a esporsi, a mettersi in gioco, ma comprende che nei tempi moderni tutto ciò è privo di significato. A nessuno interessa ciò che non può avere una utilità pratica immediata, omocromatica. Le idee non hanno prezzi, quindi se non posso comprarle non servono. Al massimo mi avvarrò di un aforisma per poi postarla sui social e ottenere meri likes di notorietà. Ed ecco che allora chi crede, poiché oppresso dal nichilismo e dal materialismo moderno, è costretto a gridare, affinché qualcuno possa sentire cosa ha da dire, cosa disperatamente vuole comunicare. Lui è solo. Grida da solo. Crede da solo. Si dispera da solo. Ma quindi “nella solitudine può esserci speranza?… Necessariamente”. Non vi è alternativa. Non è stata concessa. Se questa venisse meno e se coloro che credono dovessero arrendersi verremmo schiacciati dalla disperazione e dalla rassegnazione. Il futuro sarebbe dimenticato per lasciare spazio a un “eterno presente” che non promuove nient’altro se non un disperata sensazione di sopravvivenza, in cui il soddisfacimento delle esigenze materiali ed egoistiche risulta essere l’unica ragione dell’esistenza. Ma dinnanzi a questa tragica prospettiva la Speranza deve continuare a essere salvaguardata, tutelata e protetta. È difficile percepirla, coglierla, allora a chi dovremmo affidarci? Il protagonista del nostro racconto è un ingenuo, forse un folle, che ancora oggi crede, disperatamente crede, che grida al cielo in questo deserto, sotto un sole cocente che brucia, scotta e ustiona. La notte calerà sul mondo e sarà quello il momento in cui, magari allontanandoci dalle luci delle metropoli moderne e cupe, riusciremo ad ascoltare l’Eco di quel grido disperato che viene da lontano.
A noi, che siamo ancora in grado di ascoltare e di comprendere il significato di quell’Eco, la responsabilità di non lasciarlo morire.
A noi il sacrificio di promuoverlo, di difenderlo e diffonderlo.
A noi il dovere di rifondare un mondo in macerie.
A noi che continueremo a gridare, a sperare, a credere.