Sono ormai trascorsi quasi 16 anni da quell’ormai lontano 2004, anno in cui venne istituita la Giornata del Ricordo (legge 30 marzo 2004), volta a commemorare la diaspora, ancora non del tutto riconosciuta (per polemica politica nella peggiore delle ipotesi, per semplice ignoranza nelle “migliori”), delle popolazioni di etnia italiana presenti nel versante orientale dell’Adriatico.
Intere porzioni di popolazione (si parla dai 250.000 alle 350.000 persone) che scelsero la via dell’esodo come soluzione per non essere privati della propria italianità, per evitare di vivere come estranei a casa propria. Sorte che nella stragrande maggioranza dei casi si verificò comunque.
Vicende drammatiche che colpirono i nostri fratelli d’oltremare nella quasi totale indifferenza della popolazione italiana; fratelli che dovettero pagare le conseguenze nefaste di una guerra persa. Ancora oggi, quando si parla di istriani, fiumani e dalmati, poche sono le persone che conoscono questi popoli. Eppure stiamo parlando di questioni accadute immediatamente fuori i nostri odierni confini. Pochi conoscono l’esistenza di questa gente, ancor di meno la loro storia, le loro peculiarità. C’è chi si chiede, leggendo le targhe delle vie, chi sia mai questo personaggio chiamato Giuliano Dalmata. Risulta spesso difficoltoso, anche per le menti più aperte, far comprendere la forza, la pazienza e la grandezza di queste persone “dallo zigomo alto, slavo” (come recitato da Peppino De Filippo nel film “Arrangiatevi”), abituati come siamo a categorizzare i fenomeni in compartimenti stagni, salvo poi ribadire che essi possono essere più complessi di quanto sembrino, senza però poi andare oltre.
Si rimane sull’uscio e non si compie quel piccolo passo in avanti. Parliamo di zone caratterizzate da un complesso di culture diverse come pochi casi in Europa, soprattutto nel caso istriano. Culture che riuscirono a mantenersi in equilibrio fino alla seconda metà del XIX secolo, anni in cui cominciarono a nascere movimenti patriottici italiani e slavi, per poi giungere alla fase dei
nazionalismi (fascismo in Italia, movimenti panslavisti nei Balcani). Verrà così a crearsi una frattura insanabile. Fu proprio questa mancanza di volontà nel comprendere la realtà delle situazioni ivi presenti a scatenare i drammatici eventi che oggi leggiamo nei (pochissimi) libri di storia.
Villaggio Giuliano Dalmata Acilia Bambina esule giuliana
Ma a guerra finita? Il resto degli italiani?
Troppe furono le implicazioni politiche a cui i vincitori (un dubbio appellativo) dovettero dar conto, vuoi per “necessità” internazionali (Tito e la neonata Repubblica Socialista Federale di Iugoslavia si trovavano ancora sotto l’ala protettrice del dittatore sovietico), vuoi per responsabilità politiche da dover celare (i partigiani italiani operanti in queste terre dovettero sottostare agli ordini dei loro commilitoni slavi, spesso venendo trasferiti in zone più periferiche in modo tale da poter agire indisturbati, altre volte addirittura collaborando). Altri italiani dovevano ricostruire la propria vita tra le macerie delle proprie città.
Basti pensare alla strage di Vergarolla (accaduta il 18 agosto 1946). Fu una delle più grandi mattanze avvenute in Italia nel dopoguerra (Pola si trovava ancora sotto il controllo italiano), eppure ancora oggi non si trova il tempo per una commemorazione pubblica di tale vicenda.
Chi fuggì in Italia, nella maggior parte dei casi, non trovò una Patria pronta ad accoglierli come ci si sarebbe dovuti aspettare. Chi rimase nell’indifferenza e chi li contrastò apertamente (da ricordarsi la vigliaccheria degli operai comunisti a Bologna, i quali impedirono al treno di fermarsi per far rifocillare gli esuli, versando il latte destinato ai bambini sulle rotaie sotto le bandiere rosse, oltre agli infami articoli apparsi sull’Unità), gettarono fango sulla dignità e sulla disgrazia che colpì questa gente che fuggivano dal “sol dell’avvenir” (e quindi da sospettare di fascismi vari e ipotetici).
Prima pagina del quotidiano “L’arena di Pola” sulla strage di vergarolla
Chiusi in appositi campi profughi (vecchie carceri, conventi, caserme, con solo dei panni a dividere le famiglie che dormivano insieme su piccole brande), vennero spesso tacciati di essere dei “poco di buono”, dei delinquenti. Alcuni di loro non ressero l’aver dovuto abbandonare la propria casa, la propria famiglia per ritrovarsi in quel secondo inferno. Impazzirono. Altri si suicidarono. Ci vollero anni affinché riuscissero a integrarsi nel resto della società, riuscendo così ad abbandonare quei luoghi di dolore e sofferenza. Cosa rimane oggi di queste vicende? Molto dolore. Passi in avanti sono stati fatti: se ne parla in alcune scuole (ancora timidamente, quasi sottovoce), sono stati scritti libri, previste commemorazioni, gite scolastiche. Straordinaria la sensibilità e la capacità di comprensione da parte di Simon Cristicchi nel suo spettacolo teatrale “Magazzino 18”, dove raffigura ciò che per anni gli esuli e i loro discendenti urlavano strozzati per le strade: non è una questione di fascismo, tanto meno di comunismo. Quelli sono vecchi ricordi. Siamo vostri fratelli.
Perdonare senza dimenticare.
Non dimenticare ciò che scelsero di essere con grande umiltà: italiani due volte.