Anche in Italia sono riconosciute prerogative a deputati e senatori. Tali immunità, oltre ad essere previste costituzionalmente, sono anche integrate da disposizioni di legge, le quali danno attuazione alla costituzione ed ai regolamenti parlamentari.
Uno dei profili, da sempre citati dalla Corte Costituzionale, che rendono indipendenti le camere è quello della non responsabilità dei propri membri in relazione ai voti dati e alle opinioni espresse nell’esercizio delle proprie funzioni, previsto dall’articolo 68 comma 1 della Costituzione. Quanto detto finora è un po’ collegato al divieto di vincolo di mandato imperativo, perché garantisce ai parlamentari la più ampia libertà nel prendere decisioni ed esprimersi senza alcun timore di essere censurati o sanzionati o, come era ad origine, perseguitati da parte del potere, qualunque esso sia. L’insindacabilità rappresenta una garanzia giuridica per il parlamentare che immunizza il parlamentare da ogni specie di responsabilità giuridica NON SOLO PENALE, MA ANCHE AMMINISTRATIVA E CIVILE per tutte le decisioni e per tutte le manifestazioni del pensiero, quindi, per i voti dati e per le volontà espresse nell’esercizio della propria funzione.


Tale primo comma è senza dubbio quello più facile da comprendere, tuttavia, se il principio è assolutamente chiaro da dire, poi meno chiara è, diciamo, la sua comprensione, nella quale subentra poi anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale, la dottrina e quant’altro. Infatti meno chiaro e, anzi, da chiarire è stato il confine che separa la libertà del parlamentare non tanto dall’esprimere i voti che desidera (in tal caso c’è totale libertà) ma piuttosto per il secondo profilo che, diciamo, è il più critico, ovvero quello dell’insindacabilità; criticità che sorge intorno a quel confine, che a volte può essere anche molto labile, tra la piena libertà di espressione, chiaramente di manifestazione delle opinioni nell’ambito dell’esercizio del mandato, e l’espressione di opinioni che possono talora scadere in, per esempio, insulti, ingiurie che nulla hanno a che vedere con il mandato parlamentare.
Quale è dunque quel confine che separa questo sacrosanto diritto di esprimersi e, dunque, di essere tutelato nell’espressione delle proprie opinioni, da atteggiamenti del parlamentare che in taluni casi fuoriuscendo dall’esercizio della funzione di parlamentare finiscono per degenerare in insulto ed ingiuria?
In Italia ci sono stati casi famosi negli anni 90, per esempio il caso Sgarbi. Cosa si intende dunque per esercizio della funzione parlamentare? La funzione parlamentare va considerata tale perché esercitata in Parlamento? Oppure può essere considerata in senso lato e quindi esercitata anche al di fuori delle aule parlamentari? O ancora se ci debba essere qualche altro profilo che ci faccia intendere, o meglio, che ci faccia circoscrivere l’attività di parlamentare e quindi la funzione parlamentare? Prima ancora che la giurisprudenza, su questo profilo, si è pronunciata la dottrina, perché vi sono state almeno tre indirizzi dottrinali: un indirizzo dottrinario più restrittivo che ha circoscritto molto l’applicazione di quel primo comma dell’articolo 68, uno più estensivo ed infine, quale indirizzo di mezzo, la dottrina del nesso funzionale che poi è stata effettivamente recepita dalla Corte Costituzionale in sede giurisprudenziale.
Nel primo caso si riteneva potessero essere ricompresi nell’articolo 68 comma uno solo gli atti tipici della funzione parlamentare svolti all’interno delle mura parlamentari, quale ad esempio un’interrogazione parlamentare, con un’apertura a tutti gli atti extra moenia ma solo se compiuti nell’adempimento di funzioni inerenti all’incarico, ad esempio una missione, un parlamentare dunque che si esprime non solo nelle aule ma anche fuori quando è in missione in ragione della sua carica.


L’altro indirizzo, quello più espansivo, ha invece ritenuto che fossero coperti dall’insindacabilità tutti gli atti del parlamentare, non solo quelli tipici della sua funzione, compiuti da questo all’interno del Parlamento, ma anche tutti gli atti extraparlamentari, sia quelli svolti
nell’adempimento di funzioni inerenti il suo incarico, quali ad esempio una missione come parlamentare, ma anche quelli non compiuti nell’adempimento di funzioni, ad esempio il parlamentare si esprime non solo nelle aule parlamentari o quando va in missione, ma si esprime anche in tutti i contesti in cui si fa politica, quali ad esempio: le interviste, i comizi, gli incontri, le assemblee popolari.
La terza via, recepita anche dalla Consulta, si colloca nel mezzo e come spesso succede, poi la via di mezzo è sempre quella anche più ragionevole. Perché in base a questa interpretazione, il primo comma dell’articolo 68 ricopre tutti quegli atti tipici che siano strettamente correlati con la funzione parlamentare compiuti dai parlamentari, quindi, indipendentemente che questi si esplichino nei procedimenti parlamentari o meno, come ad esempio una missione o un interrogazione, e indipendentemente che questi si esplichino all’interno delle aule oppure al di fuori di queste, l’importante è che ci sia questo nesso funzionale tra l’esercizio delle funzioni parlamentari e l’attività svolta
Tale teoria formulata dalla dottrina è stata dunque quella accolta dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere, nonostante nei primi momenti la stessa sia stata molto generosa nei confronti dei parlamentari (con delibere da parte delle Giunte di Camera e Senato di negazione all’autorizzazione a procedere, molto favorevoli verso i parlamentari, volte a esasperare ogni minimo collegamento tra dichiarazione resa dal parlamentare ed esercizio della funzione) e avallata successivamente dalla Consulta, organo deputato a risolvere eventuali conflitti relativi all’insindacabilità tra giunta e magistratura (anche essa in una prima fase ha mostrato un favore verso il parlamento) sia pur con qualche correttivo. Consulta e Giunte, hanno infatti dovuto bilanciare l’esigenza di evitare odiosi privilegi ai parlamentari che non fossero senza fondamento, con la preoccupazione, ovviamente, che rimane sempre ferma, di garantire al parlamentare di poter esercitare liberamente la propria funzione, ed è qui che questa esigenza ha dato vita all’orientamento cosiddetto del nesso funzionale. Sentenza cardine della Consulta è stata appunto la n 375 del 1997 con essa per la prima volta la Corte, dopo una prima fase come detto poc’anzi di favore verso il parlamento, entra nel merito della questione aderendo esplicitamente alla teoria intermedia del nesso funzionale Sentenze vere e proprie di svolta rispetto a quanto detto finora sono infine le numero 10 e 11 del 2000, con le quali la Corte aprì una nuova fase della giurisprudenza costituzionale. Con tali sentenze prende il via un indirizzo giurisprudenziale confermato in successive sentenze, tutte sentenze relative alle esternazioni dell’onorevole Sgarbi. La Corte in questo caso non solo procede all’annullamento delle delibere da parte delle giunte adottate in relazione al 1° comma dell’articolo 68, ma cerca soprattutto di fissare in modo puntuale i confini dell’esercizio delle funzioni, cosa mai fatta nel momento in cui si era accolta la teoria del nesso funzionale, e quindi viene specificato che la Corte non deve solo limitarsi a verificare la presenza di vizi nel procedimento, come invece precedentemente aveva fatto, ma deve accertare se in concreto l’espressione dell’opinione in questione possa o meno ricondursi a quell’esercizio delle funzioni parlamentari, IL CUI AMBITO TRATTANDOSI DI NORMA COSTITUZIONALE SPETTA ALLE CORTI DEFINIRE.


Per concludere dunque aggiunge la Corte apportando così la novità di maggior significato, affinché tale attività svolta possa essere qualificata come espressione di attività parlamentari, non basta un semplice collegamento di argomento o di contesto con l’attività parlamentare, ma occorre che l’espressione (nel caso in cui sia extramoenia) riproduca una posizione già espressa in sede parlamentare
Dunque, per i comportamenti fuori dalle aule tale connessione va rintracciata negli atti tipici della funzione parlamentare, quali ad esempio: interrogazioni, interpellanze ecc, il cui contenuto potrà poi successivamente essere divulgato fuori dal parlamento. Non è più sufficiente, pertanto, la ricorrenza di un contesto politico o l’argomentazione politica, ma, la piena identificabilità della dichiarazione con l’espressione di attività parlamentari già poste in essere dal parlamentare. Tale svolta nel 2000 è stata mantenuta nelle sentenze successive e questo ha comportato un maggior rigore del potere parlamentare di fronte all’abuso nell’utilizzo dell’insindacabilità prevista dal comma 1 dell’articolo 68.

Simone Masi