Seppur con una certa tristezza e delusione, ciò che più si può constatare al giorno d’oggi è che la classe politica nostrana riflette, in tutto e per tutto, il marcio che risiede nella componente popolare della nazione. Ciò avviene in maniera del tutto spontanea e come netta conseguenza del sistema in cui viviamo poiché, vuoi o non vuoi, gli esponenti politici – in ossequio al principio di rappresentanza – sono eletti direttamente proprio dal popolo. In effetti, la classe politica di un’epoca (qualsiasi essa sia) non è altro che il perfetto prolungamento dell’essenza e dell’essere che sono propri del popolo, in un regime politico democratico. Non potrebbe essere diversamente, dopotutto: la differenza netta nell’approccio si può avvertire già solo col confronto tra prima e seconda Repubblica. Nella Prima Repubblica, è vero che si usciva da una situazione grave per il paese, con tutte le conseguenze belliche che l’Italia dovette subire a seguito della sconfitta della Seconda Guerra Mondiale; come è anche vero, però, che tale periodo godeva (popolarmente parlando) di una visione della vita molto più genuina di quella a cui siamo abituati noi, in assenza dell’eccessiva contaminazione del capitalismo occidentalista e, soprattutto, con dei valori sociali forti quali, ad esempio, l’umiltà.

Ecco… proprio l’umiltà è tutto ciò che, nella nostra epoca, ha perso completamente aderenza nei singoli. Umiltà significa – se volessimo definirla semplicemente – riconoscere la propria posizione all’interno della società, con particolare riferimento alle competenze in determinati settori. La conseguenza netta dell’umiltà è, spesso e volentieri, la gratitudine. Quando una persona, infatti, dispone della forza interiore di rimanere umile, riuscirà a riconoscere nella gran parte dei casi anche il bene che potenzialmente la società è in grado di elargire, sempre in relazione a dei valori fermi e universali.

E se, dunque, la società contemporanea ha perduto – in linea di massima – quella componente fondamentale dell’umiltà, ne va da sé che essa non sia più in grado di riconoscere un ruolo effettivo alle istituzioni che hanno il dovere di trainare una nazione intera. Da questa semplice constatazione, è possibile comprendere la motivazione della totale indifferenza che il popolo riserva verso la politica e la vita pubblica. Tutti oggi sono artifici di se stessi; tutti possono permettersi di esprimere opinioni che nella gran parte dei casi risultano prive di qualsiasi fondamento scientifico – o quantomeno dimostrate da qualcun altro – spesso pervase da quel sano e odioso folklorismo che snatura l’essenza di qualsiasi concetto. Esempio più che calzante, sulla situazione vaccini: una parte di popolazione, dall’alto della propria specializzazione in immunologia, si può permettere di essere avversa al vaccino e decidere, pensate un po’, se farlo o meno. Per non parlare poi della questione del tracciamento dell’applicazione “Immuni”.

Ecco che, allora, in una società dove chiunque sarebbe – nelle proprie menti eccelse – all’altezza del compito di gestire una nazione intera, si crea una patina di dispersione delle coscienze e individualismo che, oggigiorno, forse non sarebbe equiparabile a quella di nessun’altra epoca storica. Vivere in società civile, infatti, corrisponde a formare interazioni sociali in maniera tale da costituire una società organica, in uno Stato sano; una società che, riconoscendo un ruolo specifico a ognuno dei suoi componenti, è in grado di attribuirne comunque un’importanza fondamentale, in maniera assolutamente simile a un organismo umano e ai vari organi che lo compongono – imprescindibili da esso come lo sono le cellule agli organi. Ma in proporzione, come l’importanza dovrebbe essere riconosciuta alle cellule dell’organismo, anche gli organi devono possedere un’equiparata essenzialità per la vita dell’organismo. Parafrasando la metafora, così come chi si occupa di lavori non direttamente riconducibili ad ambienti istituzionali ha il diritto più assoluto ad essere riconosciuto del suo ruolo, allo stesso modo anche le istituzioni dovrebbero essere riconosciute come componenti fondamentali della società e dotate di una certa rilevanza decisionale, per il funzionamento corretto dell’apparato statale.

In funzione di tutto ciò che è stato detto, si badi bene a tenere sempre a mente l’imperativo dell’umiltà. Senza umiltà non c’è collaborazione e interazione tra individui e famiglie, e senza collaborazione non esisterebbe il retaggio sociale da cui, conseguentemente, non sarebbe enucleato neanche ciò che di più sacro un popolo può possedere, e cioè l’appartenenza a una terra comune, a una ricca tradizione “popolare” (per l’appunto) e, quindi, a una nazione. Affinché tutto ciò esista e continui ad esistere, si badi bene a non cadere nella trappola dell’individualismo e della lobotomia di massa, che conducono solo verso lo stadio finale di una malattia progressiva e degenerativa, propria di una società caotica, inerme e succube di se stessa.